In libreria/ Patrizia Garofalo. TRA·DIS·CO di Nina Nasilli In continuo differimento Nina Nasilli tra-smette dis-cordie co-niugate
13 Novembre 2010
«Transfuga io della poesia/ trascegliendo/ trascino poche parole e/ traducendo interne aporie/ trasmetto quasi in privato/ trasposizioni individuali ma/ transitive e transigenti».
Corpo e anima cantano trascegliendo e la parola svela e vela in un continuo alternarsi di apparenti “bisticci” senza mai scivolare nello sperimentalismo verbale. La poesia di apertura che apre alla meditata e fascinosa problematica dell’arte di Nina Nasilli, in cui è elemento propulsore la ricerca della parola-immagine, sostanzia dal principio la sua transigenza ad un trasparente abile gioco di virtuosismi, scelti “d’intento”per cogliersi in una se stessa più libera e meno ossessionata da “interne aporie”. In modalità quasi ludiche accompagna colore a colore, immagine ad immagine fino a bruciare la pelle, spaesare lo sguardo, sbigottire il lettore che ne rincorre parole e musica. L’autrice si fa cercare quasi in un celato di parole fortemente fuso e abitato da dis-connessioni. Esse restano nell’intera silloge a segnare dolore e gioia, oggettività e metafisica del reale, mentre la linea di demarcazione si aggiusta nel corso del testo in un andamento di eterno ritorno dell’onda.
E proprio in questo alternarsi di sub-stanziale e vuoto, trasalimento e fascino quasi estatico, consiste l’originalità di una poetessa che, anche se con sofferente aritmia, vola sopra le contraddizioni e ne fa oggetto poetico in un mosaico al quale si concede di aggiungere sempre una tessera nuova senza mai definirlo compiutamente, il compimento stando in ogni singolo gesto di collocazione.
«… tracimazioni di cuori e/ trasformazioni generazionali/…/ tracheotomie televisive e/ trasfusioni di senso/ tratte di schiave-bambine e/ tratti di strade incompiute…». Se le congiunzioni fossero sostituite dal verbo essere si avrebbe ad esempio che “tratte di schiave-bambine sono tratti di strade incompiute”, un insieme concettuale dove le strade incompiute altro non sarebbero che interruzioni, transenne, muraglie alla crescita dell’uomo nell’attimo della sua perdizione. Invece il diaframma resta nello svolgersi del testo mentre la poetessa di sé scrive di essere «transfuga della poesia», poco responsabile della parola, “cantatrice calva” di una follia del reale, del quale coglie l’aspetto di sopravvivenza selvatica del lupo e la forma antropica femminile, che ella accetta senza cercare responsi di Sibilla. E il tutto si colora in versi che, specchiati, rifrangono, anche nello stesso oggetto d’attenzione, un riverbero diverso a seconda del sentire dell’anima e del corpo: «se il corpo appare senza corpo/ sussiste differito in un fondo di carne».
Coesistono quindi mondi opposti nella voce dell’autrice che ne coglie e ne ingloba le distonie in una tela che trasuda «sugo e stupore». Ne consegue una lirica cosciente di alterità, insite e conniventi all’interno degli elementi più semplici della nostra quotidianità, così come nella ricerca di aperture che squarcino veli e assorbano la materia nella sua essenza. «Gli occhi esangui delle cose» cercano e trovano la linfa nella parola turgida della poetessa, pronta a fissare e dilatare «le ombre,/ le macchie/ di colore/ senza pudore» e così occhi e parole «urlano immote/ il loro furore/ e la prigione». L’autrice non accompagna il lettore, si nasconde, si fa cercare libera nella parola, che s’impasta e si forgia in una espressione forte di necessità («nella materia l’essenza e/ la condizione») e scolorisce nei chiari trasparenti che sembrano spandersi oltre: e sono «nuvole in cielo/ di bianco narciso la forma».
«Inerte una parte/ l’altra si strugge»… la memoria ed il sogno traspaiono a «s-tornare in alto/ da un punto ansante di materia inerte», a superare quel limite insito nella vita che strozza, imprigiona e spinge l’uomo alla ricerca, anche quando i sogni sembrano fantasmi di crocifissioni terrene. Nina, assiste e sente, si distrae e colora un mondo che spesso non torna e che varrebbe forse la pena di affidare alla follia, in una modalità poetica perfettamente consonante alla molteplicità del suo sentire. Nell’eterno conflitto di vita e morte, appare in forma ripetuta la possibilità di intuire la dimensione temporale de “il quasi”. Un atteggiamento vicino alla totalità dalla quale mordere la vita, in una condizione di avvicinamento limbico ad altri mondi sognati, trasognati e comunque vissuti: «quasi morire è l’amore che non scegliamo» e «nel computo indifferente/ di un futuro a ritroso/ e dis-umanando un poco/ tocco un eterno che mai proverò/ dopo».
Consapevole protagonista dei nostri tempi, la poesia della Nasilli avverte, di fronte alla dissoluzione del mondo, la possibile ricostruzione nello spazio dell’arte umana del ri-trovarsi senza riserve, carne viva che cerca contatto: «disperato/ colui che s’estingue/ al peso di una carezza/ non ancora posata/ sulle anse d’un corpo/ ammorbidito dal sonno».
Testimone di un passaggio lento di nomadi in cerca di terra, offre la matassa intricata/intrigante della parola, che ad ampie pennellate ci consola quando «increduli ancora chiediamo/ da dove vengano i sogni:/ che mai vorremmo se non esauditi/ come sono i miracoli certificati”. Eppure “i nostri timidissimi sogni/ sanno volare dove noi non sappiamo:/ ma ci palpitano un attimo ancora tra le dita/ se li scopriamo nel punto di noi dove spiccano il volo».
Nello scoprire, cogliere, amare, soffrire, nel resistere all’abbandono del volo troppo alto, nell’inesausto cercare come unico modo per strappare scintille di luce, prende forma il cosmo-scomposto della poesia di Nina Nasilli.