Sabato , 28 Dicembre 2024
VIGNETTA della SETTIMANA
Esercente l'attività editoriale
Realizzazione ed housing
BLOG
MACROLIBRARSI.IT
RICERCA
SU TUTTO IL SITO
TellusFolio > Diario di bordo
 
Share on Facebook Share on Twitter Share on Linkedin Delicious
Daniele Lugli. La nonviolenza per la città aperta
17 Ottobre 2010
 

[Ringraziamo Daniele Lugli (per contatti: d.lugli@alice.it) per averci messo a disposizione il seguente testo di invito al XXIII congresso del Movimento Nonviolento che si svolgerà a Brescia tra il 29 ottobre e il primo novembre 2010.]

 

 

Il Congresso del Movimento Nonviolento vuole essere un invito a quanti collocano nella nonviolenza l'orientamento fondamentale per il loro agire nella società. Può essere un'occasione importante di confronto per i partecipanti e di indirizzo alla attività del Movimento. Non è nuovo l'appello che in tal senso rivolgiamo ad amici che condividono, operando anche in gruppi diversi, nostre aspirazioni e iniziative. Ci sembra però che rivesta una importanza particolare in un momento di profonda crisi della vita sociale e culturale che investe le strutture stesse della democrazia.

 

La nonviolenza per...

Il titolo che abbiamo scelto sta a indicare la volontà di assumere la nonviolenza come risposta necessaria a una crisi profonda e a molte dimensioni.

Dire nonviolenza è in primo luogo obiettare a un sistema strutturalmente, culturalmente e direttamente violento del quale siamo vittime e complici.

Vuol dire anche pensare che dall'obiezione è necessario partire per costruire l'azione, come amava dire Danilo Dolci. Sarà perciò importante compiere un esame dello stato della nonviolenza che si vuole organizzata nel nostro Paese. Il bilancio, possiamo anticipare, non appare troppo positivo, sia pure dal nostro limitato osservatorio. Questo rende tanto più necessario il confronto con quanti al pensiero e alla pratica nonviolenta cercano di ispirarsi. Scontiamo la difficoltà di collegamenti sul piano continentale e più latamente internazionale, e il nostro modesto e sbilanciato insediamento nel Paese.

Il tentativo, al quale abbiamo partecipato con l'impegno e la capacità di cui disponiamo, costituito dalla Rete Lilliput, aveva la giusta ambizione di colmare questi limiti che non sono solo nostri. L'esperienza ha confermato l'importanza dell'obiettivo ma non sembra avere costruito lo strumento per raggiungerlo.

Su questioni rilevanti, quali ad esempio la battaglia per il riconoscimento del carattere di bene comune all'acqua, si sono realizzate forme larghe e significative di intesa e di azione comune. Si è comunque molto lontani da una “proposta della nonviolenza” che risponda ai molti aspetti critici con i quali quotidianamente siamo confrontati. Sono lontanissime le speranze della caduta del muro di Berlino, alimentate dalla caduta dei regimi autoritari avvenuta con metodi sostanzialmente pacifici, e l'idea che si aprissero prospettive di pace e di impegno comune per la soluzione di problemi il cui carattere globale sembrava riconosciuto generalmente. Già Pontara aveva avvertito l'affermarsi nella nuova situazione di una logica fondata sull'uso più spregiudicato della forza, accompagnata dal diffondersi di una mentalità che non esitava a definire nazista.

Non ripercorro i luoghi dei conflitti, dell'oppressione, dell'estrema miseria che caratterizzano gran parte del mondo. La proposta della nonviolenza, che è sembrata avere un'udienza e uno spazio privilegiato nel vicino Kossovo, è stata travolta dall'intervento militare e dal successivo affermarsi di istituzioni che ben poco hanno di democratico.

Federazioni di stati privilegiati, responsabili in gran parte di quelle situazioni, si richiudono come fortezze per contenere le ondate migratorie. Il risultato è quello di società fortemente stratificate al loro interno, con super-ricchi e potenti e sacche crescenti di miseria, e nei rapporti tra Stati, con una morale che afferma il diritto del più forte. È l'esatto contrario dell'idea di progresso che ci aveva consegnato Condorcet: ridursi delle differenze all'interno degli Stati e tra le nazioni, e continuo innalzamento dell'etica personale. Le speranze suscitate dalla nomina di Obama a capo della potenza maggiore, se non spente, sono certo attenuate.

 

... la città...

«La città degli uomini, con il suo modo di pensarla e di costruirla, è il nome che prende l'abitare che è comune dell'uomo sulla terra», ci ricorda Franco Riva. Le nostre città cambiano rapidamente sotto i nostri occhi, come cambiano gli abitanti, le loro aspirazioni e le loro relazioni. A questa realtà, ci è parso, costituisce una buona introduzione ripercorrere la Proposta di decalogo per una convivenza interetnica di Alexander Langer. Questi mutamenti introducono problemi nuovi e complessità che possono disorientare e spaventare. Le situazioni complesse richiedono un pensiero ed un'azione ricchi e complessi per essere affrontate adeguatamente. Costano impegno e fatica. Non appaiono immediatamente remunerativi. Da ciò il ricorso a forme di pensiero elementari, ad azioni brutali che allontanano provvisoriamente la paura e sembrano offrire un preciso orientamento. L'esame attento dei problemi, la necessità di una comprensione delle modalità e delle cause, appaiono perdite di tempo di fronte all'emergenza. Le stesse procedure democratiche, le garanzie del diritto frutto di lotte e sacrifici dei nostri predecessori, sono avvertite come impedimenti all'agire efficace. Il successo delle forze politiche che si sono fatte imprenditrici del disorientamento e delle paure dei cittadini di fronte a mutamenti repentini e inusitati ha queste radici. L'antica pratica del capro espiatorio e' riproposta con poche varianti. Cambia il nome della popolazione immigrata che appare più minacciosa, mentre resta confermato il carattere sempre fastidioso e difficilmente trattabile degli zingari. Quanto alla religione, non vi è dubbio che la palma negativa spetti all'Islam. La città non conserva neppure più il ricordo della polis, del luogo cioè dove i cittadini esercitavano la loro capacità di autogoverno. Vota periodicamente per chi si propone come il migliore sceriffo, perché i cittadini (difficile continuare a chiamarli così) possano dedicarsi ai loro differenti affari di aristocratici, artigiani, iloti, schiavi, barbari, immigrati...

Questo modello, affermatosi in alcuni luoghi, ha avuto un'ampia diffusione.

Il vuoto della politica è stato riempito, si è detto, dall'economia. “Qui non si fa politica, qui si lavora”, un vecchio motto è tornato per un certo tempo di attualità. Il mercato, nella sua oggettività e imparzialità, è apparso sostituire fragili poteri internazionali che si erano andati formando, i poteri dello Stato e delle sue articolazioni. Azienda Italia è divenuto una locuzione comune e, in quanto azienda, ha bisogno di padroni, manager, lavoratori subordinati, clienti. Non ha bisogno di cittadini e delle loro rappresentanze scelte dai cittadini stessi. Perfino la legge elettorale si è adeguata togliendo anche la residua possibilità di esprimere una preferenza.

Ora che la crisi economica ha messo in discussione la seconda parte dell'affermazione, e cioè certamente non si fa politica ma si stenta anche a lavorare, lo straordinario ministro dell'Economia, universalmente invidiatoci, non ha più indicato il mercato come sovraordinato allo Stato e quasi suo sostituto, ma ha invocato il ruolo decisivo della società civile. I detentori del potere economico e politico sono dunque in difficoltà e hanno bisogno di un più ampio sostegno. Di adesione convinta alla riduzione di diritti e garanzie in cambio di una possibile ripresa economica con offerta di occupazione. Così si è detto che la stessa legge per la sicurezza sui luoghi di lavoro è insostenibile nelle attuali condizioni di concorrenza internazionale. Questo in Italia, dove morti e feriti sul lavoro raggiungono cifre da guerra civile, che non interessano ai potenti poiché i morti sono da una parte sola.

Un contributo della società civile è certo necessario ma richiede che la società si meriti l'aggettivo, sia cioè composta da cittadini, non da clienti, teleutenti, sudditi.

 

... aperta

Apertura, nel lessico capitiniano, evoca costantemente la nonviolenza.

Una città è aperta nella misura in cui sono aperti i cittadini che la abitano. Sono cioè consapevoli dei mutamenti avvenuti e vogliono indirizzarli in modo costruttivo. Affrontano la complessità del vivere in comune costruendo luoghi di conoscenza, scambio, incremento reciproco. Sanno che è questo il modo giusto per essere padroni in casa propria, in una casa «che è mezzo ad ospitare» (Capitini). Non è cosa facile dopo anni di chiusura mentale, sociale, politica, esaltata in nome di una miserabile identità data dalla nascita in un luogo piuttosto che in un altro.

Si tratta dunque di un continuo processo di apertura personale e collettiva, di liberazione se si preferisce. Di questo processo il nostro Movimento vuole essere, consapevole dei suoi limiti, strumento.

È una apertura che va portata nella politica, restituendole la sua generosa funzione di costruzione della città per i figli e i nipoti e non occasione di potere e arricchimento personale, aprendo alla comprensione di civiltà differenti ed al loro apporto alla città comune.

Va a riformare un'economia in evidente crisi dopo l'ubriacatura finanziaria e il suo svincolo dai bisogni profondi e dalle possibilità di sviluppo delle persone.

Così sono necessarie profonde riforme sociali per rimediare a inaccettabili diseguaglianze di ricchezza e potere.

È un sistema intero di pensiero che va aperto, al di là delle estreme specializzazioni che impediscono di cogliere la complessità dei processi. Il confronto costante ed impegnato vi è essenziale. La stessa espressione “pensiero unico” è negazione di pensiero.

La centralità di processi educativi che mettano le persone nella condizione di esprimere e confrontare pareri competenti, il contrario dell'imperante retorica populista.

È la vita che va aperta, a dimensioni che non conosciamo o abbiamo dimenticato.

Il settimo campo indicato da Edgar Morin è quello della morale. Sembra appropriato tradurla in termini di solidarietà della quale ci parla Franco Riva: «La città sente spesso l'affanno, la solitudine, l'abbandono: avverte, cioè, il disagio del suo non essere ancora, fino in fondo, una città solidale. Eppure, nelle sue articolazioni e nei suoi snodi, nei suoi servizi e nelle sue abitazioni, nella sua pianificazione, la città allude a quella solidarietà che ispira e sorregge la sua configurazione. Il carattere universale della solidarietà, quale fondamentale dell'umano, si mette in gioco nella città. La solidarietà è un modo di dire la comunità di comunità che fanno, insieme, la città degli uomini».

 

Daniele Lugli

(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 17 ottobre 2010)


Articoli correlati

 
 
 
Commenti
Lascia un commentoNessun commento da leggere
 
Indietro      Home Page
STRUMENTI
Versione stampabile
Gli articoli più letti
Invia questo articolo
INTERVENTI dei LETTORI
Un'area interamente dedicata agli interventi dei lettori
SONDAGGIO
TURCHIA NELL'UNIONE EUROPEA?

 71.0%
NO
 29.0%

  vota
  presentazione
  altri sondaggi
RICERCA nel SITO



Agende e Calendari

Archeologia e Storia

Attualità e temi sociali

Bambini e adolescenti

Bioarchitettura

CD / Musica

Cospirazionismo e misteri

Cucina e alimentazione

Discipline orientali

Esoterismo

Fate, Gnomi, Elfi, Folletti

I nostri Amici Animali

Letture

Maestri spirituali

Massaggi e Trattamenti

Migliorare se stessi

Paranormale

Patologie & Malattie

PNL

Psicologia

Religione

Rimedi Naturali

Scienza

Sessualità

Spiritualità

UFO

Vacanze Alternative

TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
Sede legale: Via Fontana, 11 - 23017 MORBEGNO - Tel. +39 0342 610861 - C.F./P.IVA 01022920142 - REA SO-77208 privacy policy