Questa rubrica ha decisamente un punto debole: le domande mi nascono per caso e curiosità. E non sempre lo fanno. Una domanda al mese - che sarà mai, si potrebbe anche pensare. Certo. Ma resta il fatto che non sono proprio capace di fare diversamente. Le domande o arrivano o non arrivano, indipendentemente dalla mia volontà. Ci sarebbe poi da aggiungere che una volta trovata la domanda non è detto che il/la destinatario risponda. Ma non vorrei farla troppo lunga, e magari dare l'impressione che son qui a giustificare il silenzio di questi tre mesi...
Insomma, si riparte. E con una domanda importante, di quelle che ci si fa solo in certi momenti della vita. O che forse non ci si dovrebbe mai fare... E che ho affibbiato a Stefano Guglielmin per un motivo diverso da quello che lui ha inteso. Ma è proprio questo il bello delle domande: le risposte.
– Non pensi che i poeti si prendano troppo spesso troppo sul serio?
Conoscendoti, so che calibri la domanda sull'autore. Il che significa, girando la questione, che a te sembra che io mi prenda troppo sul serio o che, più in generale, io segua la schiera di poeti che si prende troppo sul serio. La risposta parte da un distinguo: il “serio” non può che essere tale quando si scrive poesia. Non si scrive, lo sai, tanto per dire o per fare; si scrive per lasciare un segno. Ogni poeta, dunque, si deve prendere sul serio, indipendentemente dai risultati. La questione è differente quando il poeta comincia a fare il critico, quando scrive sulla poesia degli altri, quando pretende vero il proprio giudizio su testi altrui. In rete e fuori capita di trovare poeti presuntuosi, ma, per quel che mi riguarda (verificalo su Blanc de ta nuque), prendo certamente sul serio la mia lettura critica, pur sapendola già sempre minacciata dalla precarietà del punto di vista e dal tempo limitato che ho potuto dedicare al testo analizzato. Credo inoltre che la critica sia un'apertura comunitaria, risultante dal dialogo fra le parti, oltretutto fondata su criteri pseudoscientifici, anche quando indaga il proprio oggetto con gli strumenti della semiotica e della filologia. Figurarsi se l'analisi adopera i saperi della filosofia, dell'antropologia, della psicologia, della sociologia, della storia delle religioni, come capita a me, specie nei libri che ho scritto. In sintesi: faccio onestamente il mio lavoro e dialogo con altre scuole di pensiero; ciò mi arricchisce e mi fa sentire bene. Se infine ti riferisci al tempo che poeti e non-poeti impiegano in rete per organizzare siti sempre più ricchi di notizie sulla poesia, siti dove un lettore possa ricavare le informazioni sparse nel web e nel cartaceo (vedi Poesia 2.0), allora ti dico: solo se ti prendi sul serio, dedichi così gran parte del tuo tempo libero ad un'attività non remunerata e misconosciuta.
L'obiezione potrebbe essere: ma con tutti i problemi che ci sono nel mondo (in Italia, nella tua città, nel tuo quartiere, nella tua famiglia), non trovi ozioso (aristocratico, snob, vergognoso) dedicarti a questa attività improduttiva? A parte il fatto che una persona potrebbe dedicarsi a differenti attività nel medesimo tempo, a me pare che la poesia vada a toccare parti decisive dell'essere umano, a nutrirlo in modo unico, soddisfando un bisogno di autenticità che c'è nel mondo, in Italia etc. etc., un bisogno particolarmente sentito oggi, visto che viviamo in una tana di serpi e sciacalli, per giunta spesso ignoranti. Proprio perché il poeta dovrebbe essere il portatore sano di autenticità, deve prendersi sul serio, fino al punto da chiarire a tutti che l'autenticità è una finzione, un miraggio, un feticcio capace di produrre disastri, come quello di prendersi sul serio così tanto da schiacciare chi scrive per diletto, o chi rivendica, ingenuamente, una propria autenticità. Io, da parte mia, prendo sul serio la mia impossibilità di essere serio fino in fondo, fino a quel fondo che mi parla quando scrivo e che è della stessa sostanza della terra: fango, plastica, oro, granito, guano...
32.
le lascia i graffi sul collo. e un bacio, talvolta.
capita quando smette di stare a vedetta, quando striscia
sul colmo del bene. appena la bile sfiorisce, lei lo veste
d'affetto come fosse un pulcino. gli alza le dita dal mondo
se le posa sul petto.
(da C'è bufera dentro la madre, L'arcolaio, 2010)
Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (VI). Laureato in filosofia, insegna lettere presso il locale liceo artistico. Ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni del gruppo "Fara", 1985), Logoshima (Firenze Libri, 1988), Come a beato confine (Book editore, 2003), La distanza immedicata / the immedicate rift (Le Voci della Luna, 2006), il foglio d'arte Il frutto, forse (Arca Felice, 2008), Erosioni, in Dall'Adige all'Isonzo. Poeti a Nord-Est (Fara, 2008), C'è bufera dentro la madre (L'arcolaio, 2010) ed i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, 2001), e Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice 2009). È presente in alcune antologie, fra le quali Il presente della poesia italiana, curata da C. Dentali e S. Salvi (LietoColle, 2006) e Caminos del agua. Antologia de poetas italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato (Monte Avila, 2008). Suoi saggi e poesie sono usciti su numerose riviste italiane ed estere e su siti web. Gestisce il blog di poesia Blanc de ta nuque e fa parte della redazione di Poesia 2.0.
s.