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Reynol Vicente Sánchez. Lettera aperta a Gerardo Hernández Nordelo
12 Settembre 2010
 

Signor Gerardo Hernández Nordelo:

 

Classificare come tortura le condizioni alle quali lei è sottoposto, oltre che irrazionale è anche un atto di cinismo da parte del regime castrista, considerando che le condizioni a cui siamo sottoposti noi prigionieri cubani da più di mezzo secolo sono denigranti e soprattutto illegali. Le scrivo di seguito una piccola descrizione così da poter trarre da sé le giuste conclusioni.

In qualsiasi dei tre edifici del Combinato Est della città dell’Avana, così come in qualsiasi prigione esistente nell’isola, il regime condanna i suoi prigionieri alla più scarsa alimentazione a cui potrebbe essere condannato un carcerato. Questa alimentazione consiste in 30 grammi di riso come “piatto forte”, un miscuglio di farina di pane con un poco di soia che raggiunge approssimativamente i 15 grammi, il quale è diviso da un uovo bollito che quando uno riesce a pelarlo diventa un insieme di tuorlo con pezzi di buccia, acquoso e insipido che si mischia alla farina di pane. Ogni 15 giorni riceviamo un piccolo quarto di pollo.

Sono esattamente 6 mesi e 21 giorni che vivo nell’edificio 1, secondo Nord, distaccamento 3 compagnia 1223 del Combinato dell’est. Convivo con altri 8 prigionieri in una cella affollata di 3 metri di larghezza, per 6 di lunghezza per 2 di altezza, dove entrano a malapena i tre letti personali separati ognuno da circa 50 centimetri, in modo da far entrare un altro letto, come succede in altre celle. Vi si trova inoltre un piccolo spazio occupato dal sacco degli alimenti che, con molti sacrifici, i nostri parenti ci portano per non farci morire di fame.

Gli scarafaggi, i topi e le zanzare fanno ormai parte della nostra normale convivenza. I tetti sono coperti di Nylon per impedire che ci cadano addosso i resti dei bagni dei piani superiori. Il continuo gocciolamento ci accompagna notte dopo notte come sottofondo musicale. Tutti i prigionieri siamo coperti di parassiti e batteri di ogni genere. L’acqua scarseggia e non è potabile cosa che porta ad una mancanza di igiene quasi totale. La pulizia della cella si effettua per letto, e a malapena si pulisce lo stretto corridoio che c’è fra i letti. Si pulisce solo superficialmente con vecchi stracci o asciugamani che ormai non servono più per asciugare il corpo, ma che in questo posto sono come tesori che a volte doniamo ai nostri compagni o chiediamo in prestito ad altre celle.

Nei piccoli spazi che ci sono sotto i letti conserviamo in borse o valigette gli oggetti personali che molte volte non entrano a lato delle scarpe, delle pantofole, pomelli di plastica per l’acqua, insieme a piatti e cucchiai dove giornalmente ingeriamo i pasti in mezzo alla peggior igiene che una persona possa immaginare, attaccati costantemente dalle mosche, dagli scarafaggi e dai topi.

Sul fondo della cella, incluso in questo spazio di soli 6 metri di larghezza, c’è il bagno che misura 3 metri per 1,60. È diviso da due pareti che lasciano tre piccoli spazi, uno per farsi il bagno, una latrina piena di sporcizia e incrostazioni e un lavandino rotto con un tubo senza catino, dove attraverso dei tubi di plastica come quelli che si usano per passare i cavi elettrici, sgorga l’acqua su una vecchia tanica completamente ossidata e riparata sul fondo con del cemento. Lì riempiamo le nostre bottiglie di plastica che accumuliamo a causa della poca acqua disponibile.

Non abbiamo disinfettanti né acidi, né abbiamo la possibilità di farceli portare dai nostri familiari. Non si disinfetta né si combatte la presenza dei roditori, e con ciò si spiega la presenza di scarafaggi e ratti di grandi dimensioni e piattole che ci passano addosso mentre dormiamo o mentre siamo svegli. Gli escrementi e scorie dei bagni delle celle non passano dai tubi, scendono in caduta libera dalle pareti posteriori dell’edificio che danno a un patio. Lì, si depositano tutti questi liquidi che rilasciano dei gas che salgono verso l’alto arrivando alle nostre narici minuto dopo minuto, giorno dopo giorno.

Lei è rimasto solo 13 giorni nel buco, sottomesso a temperature che arrivavano anche a 34 gradi centigradi. Noi viviamo con le stesse temperature l’estate cubana che lei conosce bene. Non ci permettono di avere dei ventilatori, né tantomeno una radio e anche se l’avessimo non potremmo utilizzarla perché a causa delle pessime condizioni economiche in cui ci troviamo, il flusso elettrico viene disattivato e dunque le nostre celle restano completamente senza elettricità. Non ci permettono avere macchinette elettriche ma ci obbligano ad essere sempre rasati, se no ci portano davanti ad una corte composta dai capi dell’edificio dove come sanzione ci riducono lo sconto di pena, la visita a cui abbiamo diritto ogni 45 giorni o la visita coniugale che avviene ogni due mesi.

In questi contati le famiglie sono costrette a cedere quel poco che hanno per portarci sacchi dove generalmente mettono biscotti, zucchero, latte in polvere e tutto quello che si possa conservare e che ci permettono tenere. Se ci portano carne già cotta dobbiamo mangiarla in due giorni visto che non avendo frigoriferi va a male.

Con tutta la sincerità del mondo mi permetto di dirle che lei non ha dovuto lottare contro il terrorismo del Paese, ma ha collaborato con questo terrorismo di stato che tiene sotto il suo giogo undici milioni di cubani e che continua ad esercitare il suo potere. Non mi basterebbero chilometri di carta o litri di inchiostro per descriverle con dovizia di dettagli tutto quello che soffrono i prigionieri cubani in questa enorme prigione, la più grande del mondo.

Un reale esempio di tortura è quella del cubano-americano Yamil Domínguez Ramos che è ha compiuto oggi 118 giorni di sciopero della fame protestando per una ingiusta incarcerazione. Con piena convinzione morale si dichiara innocente e dice di aver subito una falsa accusa di traffico di esseri umani, cosa che gli ha causato una pena di dieci anni di carcere. Quello che loro non riescono ad accettare è che Yamil ha accettato la nazionalità di un Paese che gli ha teso la mano e gli ha dato la possibilità concreta di crescere e sentirsi un uomo completamente libero, cosa che continua ad essere un’utopia per noi cubani tutti.

Spero soltanto che riesca e voglia leggere questa lettera che le scrivo dalla cella -1223 con altri otto compagni come testimoni di ogni parola che io le ho scritto nella presente.

È tutto,

Reynol Vicente Sánchez

prigioniero comune,
attualmente detenuto nel Combinado del Este

(da Voces tras las rejas, 16/08/2010)

Traduzione di Barbara La Torre


 
 
 
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