Hemingway, Kafka, Oscar Wilde, Dostoevskij: sono moltissimi i “mostri sacri” della cultura che hanno visitato Milano lasciandone testimonianza in diari, lettere o libri. Ne riparleremo presto, in questa rubrica. Per ora, limitiamoci a dire che esiste una grande e antica varietà di pareri sulla città, in quanto già dalla fine del ‘400 Milano ha iniziato ad attirare visitatori. E in seguito, pur non essendo compresa nel Grand Tour classico, veniva comunque inserita negli itinerari di “scendeva” verso l’Italia centrale o vi ritornava diretto in Svizzera.
Un notevole flusso di “turisti” che, con i suoi pensieri, ci permette di confrontare l’immagine di Milano nei secoli con quella attuale, verificando come parte dell’identità della nostra città abbia radici lontane. La Milano di oggi, ad esempio, ha sicuramente ereditato l’idea di ricchezza, registrata fin dal mondo longobardo, come scrive nel Versum de Mediolano civitate un anonimo dei primi del 700: «Forestieri e nativi vi diventano ricchi per convenienti guadagni; gli ignudi vi sono abbondantemente rivestiti; i poveri e i romei vi sono saziati. È famosa per mercanzie di ogni qualità e piena di granaglie di vario genere; v’è abbondanza di vino, e le carni vi sono in quantità grande».
Questa immagine verrà poi costantemente ribadita in tutti i secoli successivi (Andrea Scoto nel ‘600 scrive che: «Si dice per proverbio: solo in Milano si mangia»), anche in periodi in cui il benessere era limitato a pochi fortunati, come in quello spagnolo. Insieme ad un altro luogo comune, talmente meneghino da essere scontato: l’importanza del lavoro e dei soldi. Un’affermazione quanto mai attuale ma pronunciata dall’astronomo Delalande già nel 1765: «Ai milanesi si rimprovera di fare economia sino all’eccesso. Proprio per questo loro carattere un aumento del prezzo delle derrate getta le persone nella disperazione e li renderebbe capaci di provocare una rivolta generale. Questa grande economia rende il popolo attaccato al suo stato; i mercanti aprono presto e chiudono tardi, e qui ciascuno lavora più che nel resto d’Italia».
Qualche anno prima, un eccessivo attaccamento ai danee (che per alcuni, invece, è solo amore per il proprio lavoro) era stato riscontrato pure da Montesquieu («I francesi lavorano per accumulare e spendere subito. Sembra che abbiano una mano avara e l’altra prodiga. Sono al tempo stesso, milanesi e fiorentini») e da un altro viaggiatore francese dell’epoca, Jean Grosley: «Per quanto riguarda il commercio e il denaro, i milanesi sono sempre “lombardi”, nel senso che i francesi avevano attribuito a questo nome, quando il popolo che lo porta, divideva a Parigi con gli ebrei tutti i commerci in denaro o valori. I piccoli guadagni li allettano tanto, che non vi possono rinunciare, sia nei più grossi affari, sia in quelli fatti a titolo d’amicizia».
Accertato, quindi, come era forse prevedibile, che lavoro, soldi e ricchezza hanno sempre fatto parte dell’anima della nostra città, veniamo ora a faccende più controverse. Su una questione importante come la bellezza di Milano, ad esempio, si incontrano pareri piuttosto discordi. Esattamente come adesso, infatti, esiste storicamente un primo partito che sostiene la bruttezza della città. L’“anonimato” di Milano ha sostenitori fin dai primi del ‘600, con il tedesco Pflaumern che scriveva: «Oserei dire che Milano supera certo le città italiane per la grandezza e il numero degli abitanti, ma per quanto riguarda la bellezza dei palazzi privati è superata da molte». Nel ‘700 questa scuola di pensiero viene confermata dal Conte di Caylus («Se si eccettuano le chiese e alcuni palazzi, Milano non meriterebbe alcuna curiosità»), dal celebre Charles De Brosses («Le vie sono larghe e le case per lo più di cattiva architettura. Non ho visto né chiese, né palazzi di uno stile che mi abbia pienamente soddisfatto. Nelle strade non s’incontrano che guerci, zoppi, gozzuti») o dall’inglese Burney. E se ciò non bastasse, dal ‘900 Milano inizia ad apparire pure “antipatica”, come la definisce Hesse, il quale poi calca la mano: «Con Venezia negli occhi, mi è insopportabile la sporcizia delle strade di questa città e il suo traffico animato e rumoroso di tram e di vetture: è come destarsi da un sogno alla dura realtà».
Anche Freud, a cavallo del secolo, si lamenta del caos e del rumore milanese, attribuendo alla città l’aggettivo «biliosa». E Karel Capek, uno degli scrittori cechi più tradotti al mondo, nel 1923 rincara la dose: «Milano si sforza di essere una piccola Londra. Perciò vi sono tante vetture di piazza, auto, maledette biciclette, rumori, banche, venditori porta a porta, tram, gabinetti di marmo, réclame luminose, persone e traffico e vigili con l’elmo nero, che sembrano becchini, e negozi, clacson, fretta e tutto il possibile”. Una critica che non è nulla rispetto alle impressioni di un arrabbiatissimo Jean Giono, che arriva in città nell’agosto del 1952: «Usciamo per la via dove il calore e la luce sono insopportabili. Le vie sono forse piene di donne straordinarie, io non le vedo; se do credito alle mie letture, sono a contatto di gomito con gli uomini più romantici del mondo, ma ho un solo desiderio, andare a stendermi nella luce filtrata di una camera fresca. Giuro per tutti gli dèi che stavo meglio a casa mia. E poi vi è quel Duomo che non vale una caccola di coniglio...».
A questa prima fazione, assai numerosa anche oggigiorno, si contrappongono i perenni “innamorati di Milano”, che dall’Ausonio del IV secolo d.C e da Matteo Bandello, passando dal già citato barone di Montesquieu e (ovviamente) da Stendhal, arrivano a Edith Newbold Wharton (foto) che nel suo acuto Italian Backgrounds (tradotto dalle Edizioni Olivares nel 1995) stronca ogni luogo comune: «È difficile dire se la classica frase del classico turista: “A Milano c’è poco da vedere” contribuisca maggiormente a mettere in ridicolo chi la pronuncia o a esaltare la gloria dell’Italia. Infatti, neppure a un’occhiata veloce Milano può sembrare poco interessante».
La scrittrice fa poi seguire uno splendido ritratto delle bellezze architettoniche della città, che ogni milanese dovrebbe leggere. Una sensibilità tutta femminile, la sua, che ci permette di introdurre un’altra, secolare, diatriba: le milanesi sono belle?
Già, nemmeno su questo tutti i viaggiatori sono d’accordo. Il primo a farne cenno è Arnold von Harff, un pellegrino tedesco diretto a Roma, che nel 1496 scrive: «Secondo il mio debole giudizio, ho visto a Milano le più belle donne tra tutte quelle che ho incontrate ne’ miei viaggi». Un’esternazione ripresa nei primi del 1500 da Matteo Bandello: «Che diremo de la pompa de le donne nei loro abbigliamenti, con tanti ori battuti, tanti fregi, ricami, trapunti e gioie preziosissime? che quando una gentil donna viene talora in porta, par che si veggia l’Ascensa ne la città di Vinegia». La Milano della moda, insomma, ha radici lontane. Ma contrapposto a loro e a Stendhal, che ovviamente concorda («In vita mia non ho visto una radunata di donne così belle; la loro bellezza costringe ad abbassare gli occhi»), troviamo un carnet di grandi nomi, come Shelley che accusa le milanesi di essere un misto di civetteria e puritanesimo, un ironico Mark Twain che parla di «una certa peluria sotto il naso» delle dame meneghine ed infine Hesse, che dice di avere visto a Milano poche belle donne.
Personalmente, ritengo che chiunque vada adesso in giro per la città, non abbia il minimo dubbio nel dare ragione al primo partito. Mentre su un'altra caratteristica si potrebbe, invece discutere: il carattere aperto del popolo meneghino. A riguardo, forse inaspettatamente, troviamo parecchie impressioni positive che dai soliti Ausonio (che parla della “nostra” indole affabile) e Bandello («I milanesi sono splendidissimi in tutti i loro conviti e par loro di non saper vivere se non vivono e mangiano sempre in compagnia»), arrivano agli ottocenteschi Burckhardt («milanesi sempre allegri e curiosi», persone di spirito), Ruskin (che ci definisce «onesti e affaccendati») e, di nuovo, Stendhal. Secondo il quale «il popolo milanese riunisce in sé due cose che non ho mai visto insieme nella stessa misura: la sagacia e la bontà».
Una dote che, avendo origini così antiche, siamo certi che non può essere scomparsa. Aspettiamo con fiducia, perciò, che… ricompaia. Saludi
Mauro Raimondi