Mi sollecita l’articolo di Monica Lanfranco ricevuto stamattina: “Cose da uomini (di Stato)”. Sono d’accordo con ogni cosa che dice, perciò voglio aggiungere alla sua indignazione anche la mia, guardando al tristo evento da un altro punto di vista.
Perché 500 ragazze sono disposte a vendersi? Sono alla fame, hanno figli piccoli, genitori indigenti, sono ricattate, in pericolo di vita, o altro che giustifichi la loro azione?
Nel mio immaginario sono tutte o quasi diplomate, forse persino laureate, con famiglia e amici soccorrevoli, un tetto sulla testa, tre pasti al giorno e un po’ di superfluo. Che cosa dunque le convince a prestarsi ad una delle tante farse del potere che non potrebbero stare in piedi senza le donne come comprimarie?
Leggendo ieri mi è tornato alla memoria un episodio raccontato da una ragazza che ha vissuto la seconda guerra mondiale.
Lavoratori pendolari e l’inverno che la guerra faceva più duro: arrivavano in bicicletta dai paesi vicini fino alla stazione di Romano Lombardo e salivano sui carri bestiame per andare a lavorare a Milano.
Le ragazze erano poche, la sua amica viaggiava in prima classe con i tedeschi e la invitava a salire con lei, stupita del suo rifiuto.
Aveva fatto la quarta elementare, faceva l’operaia e d’inverno le venivano i geloni, ma non accettò mai di viaggiare con la sua amica. Ricordo lo sguardo stupito e sospettoso quando le chiesi “perché?”. Per lei era ovvio, non sapeva spiegarlo a parole, non era ‘istruita’, rispondeva con espressioni ed esclamazioni. “Eri antifascista?” ho insistito, suggerendole una nobile motivazione politica, ma non ha afferrato l’occasione per mettersi una medaglietta: non era fascista e non le piacevano i tedeschi ma detestava soprattutto la guerra, il motivo per cui non viaggiava in prima classe era diverso, più profondo, più personale. “Preferivo essere di quelli del carro bestiame, uguale agli altri, mi sarei vergognata di approfittare”. Nella sua lingua si poteva parlare di sé solo in negativo.
Il femminismo mi ha insegnato le parole per raccontare la sua storia che si può intitolare DIGNITÀ.
Quella ragazza era mia madre. La vita in questo paese non ha riconosciuto la sua dignità, i suoi geloni e nemmeno il suo lavoro. Andò in pensione con poco più della minima riconosciuta alle casalinghe, perché i datori di lavoro ti riconoscono le ore produttive e non quelle che tu strappi alla tua vita per arrivare a produrre; portò per molti anni gli abiti smessi della sua amica che godendo di buone conoscenze fece un buon matrimonio, non ebbe né pellicce né gioielli e nemmeno una casa in proprietà.
È morta quando il berlusconismo era già il cancro che conosciamo e la parola successo cominciava a diventare il sinonimo di libertà.
Per lei la libertà era non doversi vendere a nessuno.
Ho imparato da lei a cercare di capire prima di giudicare: in questa vicenda il modo di agire degli uomini mi è chiarissimo e altrettanto lo è il mio giudizio, che sostiene la duratura indignazione condivisa con tanti cittadini e cittadine.
Alle ragazze invece chiedo: perché? Quali bisogni, desideri, necessità del corpo e dell’anima, spingono a vendersi su questo mercato?
Rosangela Pesenti