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Il castello di Königs Wusterhausen: uno specchio dell’austerità prussiana
18 Agosto 2010
 

Il re di Prussia Federico I, che acquisì il titolo regale nel 1701, era ancora soltanto Principe Elettore quando, nel 1682, acquistò una tenuta con castello in un luogo sperduto del Brandenburgo: la località, che da allora porta il nome di Königs Wusterhausen, si trova, a ca. 40 Km a sudest di Berlino. Nel 1698 regalò la proprietà a suo figlio, il futuro Federico Guglielmo I, il re soldato, padre di Federico II (il Grande), che trasformò l’edificio in un castello da caccia. Proprio qui, una volta succeduto sul trono di Prussia, il severissimo monarca firmò, nel 1730, la condanna a morte dell’ufficiale Hans Hermann von Katte, punito per aver sostenuto il piano di fuga in Francia del principe ereditario, il figlio Federico appunto, che con quel gesto voleva tentare di sottrarsi alla ferrea disciplina paterna. In effetti il re, inamovibile nel suo rigore, fece assistere suo figlio, allora diciottenne, alla fucilazione del luogotenente, al quale il futuro Federico II era legato da profonda amicizia.

Nessuno mette in discussione oggi l’eccesso dei metodi pedagogici del re prussiano. Altrettanto severo è il giudizio su di lui come marito; sua moglie Sophie Charlotte soffrì non poco sotto il rigore del consorte dalle abitudini spartane e risparmiatore fino alla taccagneria, che non le concedeva nulla – anche riguardo ad abiti, gioielli e suppellettili – che andasse oltre una dimensione di austera sobrietà. Oggi però, a Königs Wusterhausen – se si volesse tentare una traduzione di questo toponimo si potrebbe forse renderlo con “Residenza regale in un villaggio abbandonato” – si prova a correggere almeno in parte quest’immagine di Federico Guglielmo I, padre-patrigno e marito-padrone, rivalutando la propensione all’arte di questo sovrano che, soprattutto negli ultimi anni della sua non lunga vita (morì a 52 anni) si dedicò con zelo alla pittura.

Tutta una serie di suoi quadri, soprattutto ritratti a mezzobusto, sono appesi alle pareti delle sale di questo castello, ristrutturato e risanato dopo la riunificazione tedesca e oggi accessibile al pubblico. I soggetti dei dipinti a olio – quasi tutti copie di quadri più noti – vanno dall’antica Roma (c’è p. es. un Caligola) ai familiari (un ritratto raffigura la moglie Sophie Charlotte) a popolani (come p. es. un contadinello), ma tutti, senz’eccezione, come ebbe a sottolineare già il grande narratore Theodor Fontane nelle sue Passeggiate per la Marca di Brandenburgo, dimostrano soltanto che il re, in fondo, non sapeva affatto dipingere. La guida entusiastica che mi conduce per gli stanzoni semivuoti dei due piani del castello, non cessa però di sottolineare questo “bisogno delle muse” del re delle caserme, che, benché la storia ci abbia tramandato di lui l’immagine di un uomo inflessibile e insensibile, ricorse all’arte come terapia e consolazione contro i dolori fisici che la malattia (soprattutto la gotta) gli causava. Del suo talento, tuttavia, la signora non riesce a convincermi, anche se con lei posso ammettere che oggi, forse, uno psichiatra potrebbe offrire, analizzando questi quadri, una valutazione meno drasticamente negativa della sua personalità.

Le due vere grandi passioni di Federico Guglielmo I, le armi e la caccia, sono anche a Königs Wusterhausen assai meglio rappresentate. Una serie di trofei da caccia alle pareti e alcuni quadri di genere appesi nel grande androne centrale, su cui, su entrambi i lati, si aprono simmetricamente una serie di stanze di varie dimensioni, rendono testimonianza della smania venatoria del re, che in questa residenza si tratteneva con l’intera famiglia, allontanandola così dalle mondanità e dagli sprechi della capitale, da agosto fino a novembre inoltrato.

Specchio della passione militare del sovrano è invece la cosiddetta Galleria degli ufficiali, uno spazio vuoto le cui pareti sono interamente ricoperte da tre file di ritratti, tutti della stessa dimensione e in gran parte attribuiti al pittore magiaro Adám Mányoki, che raffigurano gli alti ufficiali dell’esercito, con tanto di nome che li identifica singolarmente pur nella globale impressione d’uniformità che suscitano, essendo tutti vestiti di un’armatura brunita. Fra di loro sono naturalmente rappresentati i nomi delle più antiche famiglie nobili della regione.

Il piacere a cui il re e i suoi accoliti si dedicavano a Wusterhausen era quello del fumo: un grande quadro anonimo, ritrovato per caso – sempre stando alla guida –, illustra quest’abitudine, il cosiddetto “Tabakskollegium”, dove si vede il monarca di spalle a capo di un lungo tavolone fumare, come fanno anche i suoi ospiti, una lunga pipa bianca. Nello stesso salone, un enorme boccale di birra in argento massiccio, la cui superficie costellata di monete autentiche dello stesso metallo farebbe la gioia di qualsiasi appassionato di numismatica, dimostra tuttavia che anche con i boccali di birra non si lesinava. Nella sala del Tabakskollegium si chiude la visita al castello sulla cui storia la guida, nella sua incoercibile foga, intrattiene me e altri due visitatori con encomiabile competenza per quasi due ore.

Ma anche l’esterno del castello ha una struttura squadrata che suggerisce l’idea di una grande solidità e di un gusto lontano dalla ricerca dell’ornato e del lezioso. L’edificio è composto da due massicci blocchi squadrati con tetto a capanna, raccordati da una torre centrale, unico elemento che conferisce dinamica e verticalità a questo imponente e misurato castello, che rispecchia nella sua struttura la politica di un re che, con licenziamenti in massa e tagli a ogni genere di spesa, riuscì a risanare il bilancio di uno stato che da suo padre aveva ereditato indebitato fin quasi alla bancarotta. Forse per via di quest’eredità, Federico Guglielmo I sviluppò un’autentica idiosincrasia contro ogni genere di orpello e fronzolo; anche l’estetica di Wusterhausen riflette la sua draconiana politica del risparmio e dell’essenziale, che, come dice una canzone popolare dell’epoca, indusse il padre di Federico II a far andare di nuovo a piedi quanti prima usavan la carrozza e costrinse a tornare a usar le proprie gambe chi amava ricorrere alla portantina.

 

Gabriella Rovagnati


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