Non piove,
è marzo, non piove e la polvere aumenta fino a palpare gli oggetti,
come se la polvere avesse una gran lingua che potesse palparli.
È marzo nella Città enorme e la polvere cresce come solo saprebbero crescere
forse
certi oblii.
È marzo e dieci minuti fa eravamo sicuri che piovesse:
le nubi suonavano i loro tromboni annunciando una pioggia che già potevamo accumulare
con lo sguardo,
ma era falso,
un miraggio,
quasi un piacere,
come spesso succede nella enorme Città.
E cresce la polvere:
ho visto otto formiche soffocate per la polvere.
La polvere cresce, la città si allunga e nella
Avenida Observatorio non è stato possibile vedere il passaggio di una donna
né il dolce di un bambino
e la chiesa Cristo Re sembra più volgare nell’ondosità della polvere.
Quattro camion da lavoro corrono per l’Avenida Observatorio
e sollevano la polvere verso gli aerei che in mezzo alla polvere
attraversano il cielo
ogni 45 secondi.
È marzo e già ieri notte un’altra volta sembrò che finisse per piovere
e la gente
faceva festa per una pioggia che già bagnava le scarpe,
ma non è stato niente più che un nuovo miraggio
come tanti altri che sa partorire questa immensa Città.
È marzo e la polvere ha già soffocato più di otto formiche
e ha seppellito con il suo peso
l’amato albero della strada, che era verde.
Signorine, signori e signore tirano fuori i loro annaffiatoi
e nei giardini irrigano la polvere nell’acqua,
e il prato e i fiori, vomitati dalla polvere,
sembrano sorridere per un istante,
sembrano tirati fuori dal sepolcro per un istante,
e la terra emette un breve fremito di allegria
prima che la polvere torni a schiacciarla
e sia di nuovo la terra solo polvere.
Non piove,
l’interminabile Città sembra allungarsi in mezzo alla polvere,
sembra
un’interminabile lacrima di polvere.
Félix Luis Viera
(da La patria es una naranja)
Traduzione di Gordiano Lupi
LETTURA di Patrizia Garofalo
Non piove, è Marzo. Inutile è l’attesa di un temporale ristoratore anche se spesso preannunciato da nubi scure e tuoni lontani. Si spera avvenga nel desiderio di scarpe bagnate un miracolo di catarsi che si fa miraggio, oasi, differimento d’altre sensazioni e altri credo.
Sedimentano “altri oblii” sotto la polvere che acceca e copre “fino a palpare gli oggetti”. Uccide, la polvere uccide come il silenzio, come la rassegnazione, come l’abbandono. Opacizza anche la chiesa di Cristo Re, dio abbandonato ad un nome che involgarisce “nell’ondosità della polvere”. Essa si compatta e, consistente, imbratta, toglie luminosità mai significativa di un ritorno all’archetipo creatore. Gli aerei volano come ciechi pipistrelli in un ingorgo fangoso che arriva al cielo. L’immensa Città perde la sua vastità, rimane dominio di solitudini e segreti, la grandezza si riduce ad una finitezza di speranze, e partorisce miraggi come la vita quando i sogni si disfano la mattina e altro non c’è che attendere un’altra notte. Non è Città, non è polis, non ha coscienza, divoratrice di speranze diventa nome comune di cosa ed “enorme” non indica grandezza ma solitudine e dolore e stallo. Ha seppellito persino l’albero verde e più di “otto formiche” facendosi paradigma di un mondo dove polvere e sofferenza hanno costruito muri invalicabili e soffocato l’albero verde.
Con l’innaffiatore si allontana per poco la morte e si tenta un altro giro di vita ma rantolano i fiori e forse averli illusi non ha permesso neanche ad essi di cogliere il ritmo naturale delle cose.
L’intensità del pianto misto a melma segna il volto di uomini e cose.
Forse almeno si potranno piangere lacrime pesanti.