Ringraziamo Maria G. Di Rienzo per averci messo a disposizione nella sua traduzione la seguente lettera aperta pubblicata come annuncio a pagamento sul quotidiano israeliano Haaretz il 6 agosto 2010
Venerdì 23 luglio 2010 abbiamo fatto un viaggio, una dozzina di donne ebree israeliane ed una dozzina di donne palestinesi della West Bank con quattro loro figli, fra cui un neonato. Abbiamo viaggiato in auto attraverso le colline interne del paese (“Shfela”) e fatto un giro turistico di Tel Aviv e Yaffa insieme. Abbiamo pranzato in un ristorante, preso il sole e passato veramente dei bei momenti sulla spiaggia. Siamo tornate attraverso Gerusalemme ed abbiamo guardato la città vecchia da lontano.
La maggior parte delle nostre ospiti palestinesi non aveva mai visto il mare (che è a meno di 60 km dalle loro case). La maggior parte di esse non ha mai avuto la possibilità di pregare nei propri luoghi sacri a Gerusalemme - Al Quds, e li hanno osservati con desiderio da Monte Scopus.
Nessuna delle nostre ospiti aveva un permesso di ingresso in Israele. Le abbiamo fatte passare attraverso i posti di blocco nelle nostre automobili, sapendo di violare la “Legge di ingresso in Israele”. Lo annunciamo qui apertamente.
Questo viaggio comune è stato organizzato quale risposta alla denuncia presentata dallo stato alla polizia contro una di noi, Ilana Hammerman, per un viaggio simile che lei ha fatto con tre giovani donne palestinesi. Abbiamo deciso di agire nello spirito di Martin Luther King e di mostrare simbolicamente che noi non riconosciamo leggi immorali e ingiuste.
Non riconosciamo legalità alla “Legge di ingresso in Israele”, una legge che permette ad ogni israeliano ed ogni ebreo di viaggiare liberamente in qualsiasi parte della terra fra il Mediterraneo ed il fiume Giordano, ma che nega lo stesso diritto ai palestinesi, nonostante questo sia anche il loro paese. Questa legge li spoglia del diritto di visitare città e villaggi lungo la “Linea Verde”: luoghi in cui essi hanno profonde radici familiari, di eredità culturale e di legami nazionali.
Perciò, abbiamo obbedito alla voce della nostra coscienza e ci siamo prese la libertà di condurre delle donne in alcuni di questi luoghi. Noi e loro ci siamo assunte il rischio insieme, con chiarezza di mente e forte convinzione.
In tal modo, noi israeliane abbiamo guadagnato un altro grande privilegio, il fare esperienza nella nostra nazione, una nazione che vive sulla sua spada, di uno dei giorni più belli ed emozionanti della nostra vita: aver conosciuto coraggiose donne palestinesi, piene di gioia di vivere, l'aver passato del tempo assieme a loro ed essere state libere assieme a loro, anche se per un solo giorno.
Non abbiamo portato in auto “terroriste” né “nemiche”, ma esseri umani, nostre simili. Le autorità ci separano con barriere e posti di blocco, regole e regolamenti. Non per salvaguardare la nostra sicurezza, ma per santificare l'ostilità e perpetuare il controllo di terra illegalmente sottratta ai legittimi proprietari. Questo ladrocinio di massa è stato compiuto in violazione di tutte le leggi e convenzioni internazionali; viola i valori universali dei diritti umani, la giustizia e l'umanità.
Non siamo noi a violare la legge, lo stato di Israele è stato il violatore in capo per decenni. Non siamo noi, donne con una consapevolezza civile e democratica, ad esserci spinte troppo in là. È lo stato di Israele che ha passato i limiti e che ci sta conducendo in un precipizio e forse persino all'autodistruzione.
Chiamiamo i cittadini di Israele ad ascoltare le parole di Henry David Thoreau, un pensatore americano del XIX secolo, che nel suo famoso trattato sulla Disobbedienza civile scriveva: «Quando un sesto della popolazione di una nazione, che si suppone essere il rifugio della libertà, è in schiavitù, ed un intero paese è ingiustamente rovesciato e conquistato da un esercito straniero, e reso soggetto alla legge marziale, io penso che non sia mai troppo presto per gli uomini onesti ribellarsi e rivoluzionare la situazione. Ciò che rende questo dovere ancora più urgente è il fatto che il paese così conquistato non è il nostro, è nostro l'esercito invasore».
Ascoltate queste parole, guardate come si adattano bene alla situazione in cui la nostra nazione ha portato se stessa, e a quello che abbiamo fatto.
Ilana Hammerman, Jerusalem
Annelien Kisch, Ramat Hasharon
Esti Tsal, Tel Aviv
Daphne Banai, Tel Aviv
Klil Zisapel, Tel Aviv
Michal Pundak Sagie, Herzlia
Nitza Aminov, Jerusalem
Irit Gal, Jerusalem
Ofra Yeshua-Lyth, Tel Aviv
Ronni Eilat, Kfar Saba
Ronit Marian-Kadishai, Ramat Hasharon
Ruti Kantor, Tel Aviv
(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 12 agosto 2010)