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Fabiana Cruciani. Sarmel, moderno profeta della nostalgia e della speranza 
“Sarmel e Dio” di Paolo Diodati e Fernando Sulpizi. Prima esecuzione assoluta domenica 25 Luglio, Oratorio di Santa Cecilia in Perugia
30 Luglio 2010
 

Note critiche a Sarmel e Dio, 6 Quadri per voce recitante, Vibrano e percussioni originali, soprano, mezzosoprano, clarinetto in sib, clarinetto basso: testo di Paolo Diodati, musica di Fernando Sulpizi

 

 

«Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze». Così Nietzsche, ma così anche Sarmel, moderno “profeta” a cui Paolo Diodati, scienziato-poeta, docente di fisica all'Università di Perugia affida «la sua moderna ballata narrativa e descrittiva, irta di prosaismi, dissonanze, forme prossime ad una oralità originaria» (Matteo Veronesi). Sarmel è l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e nel suo cammino annuncia e indica nella fedeltà alla terra l’unica strada percorribile e razionalmente accettabile. In lui convivono il tratto tipico della mentalità greca per cui il ciclo eterno di nascite e di morti si estingue per dare origine a nuove forme d’esistenza e quello dell’uomo tecnologico che ha ridotto la natura a terra di dominio ed ha celebrato la morte di Dio. Ma né la fedeltà alla terra né tanto meno la tecnica, che nell’artificialità del suo incedere non ha alcuna meta da raggiungere se non il proprio potenziamento, sembrano più supportare le certezze di Sarmel. Neanche la Ragione assurta a vera divinità può colmare quella mancanza di senso che Sarmel inaspettatamente comincia a provare come un’inesplicabile solitudine del cuore. Eppure la ragione umana aveva emancipato l’uomo “decidendo” che una cosa non è il suo contrario per cui è impossibile dire dello stesso che è Dio e uomo. Sarmel che aveva trovato alimento in quella forza violenta e dirompente che è sottesa ad ogni decisione, perché de-cidere significa “tagliare” (de-caedere) e quindi stabilire definitivamente il senso delle cose, aveva eliminato «d’un colpo tutti i significati adiacenti e tutte le oscillazioni possibili di cui si alimentano le mitologie, i simboli, le fantasie, le allucinazioni che attingono a quello sfondo pre-umano che è lo sfondo dell’indifferenziato» (U. Galimberti). Attraverso la ragione Sarmel aveva potuto orgogliosamente affermare che «questo è questo e non altro» ma proprio quando il suo gesto diviene estremo avverte e percepisce che la decisione della ragione non è la verità delle cose. Di fronte alla inadeguatezza della stessa ragione e a quella incolmabile mancanza di senso, il sentimento che avverte è la malinconia per quella dimensione che Diodati chiama la «favola bella di quando l’uomo era bambino». Solo, di fronte alle sue orgogliose costruzioni conoscitive Sarmel avverte il vuoto dell’anima che non può essere raggiunto da alcuna voce umana perché il silenzio dell’anima è più assordante di ogni suono. Scopre così che la «sbeffeggiata» dimensione del sacro custodisce «quello sfondo pre-razionale, che gli uomini abitano più profondamente e più intimamente di quanto non si adattino alla convenzione razionale» (U. Galimberti); irrazionalmente capisce che là dove si smarrisce ogni traccia di trascendenza è la stessa esistenza ad autonegarsi, a ricadere su se stessa, senza la possibilità di alcuna ulteriorità. Di fronte a quelle domande attraverso cui l’uomo ha costituito la sua essenza, tutte le parole che impieghiamo nel mondo, comprese quelle della scienza, mostrano la loro afasia e la religione come annuncio di redenzione e le sue figure, la speranza e la fede in ciò che ha da venire, forniscono una possibilità di senso all’inquieto ed enigmatico procedere dell’uomo.

Dal punto di vista formale, come giustamente mette in evidenza Patrizia Garofalo – prima curatrice del testo – la ballata di Diodati si caratterizza per una struttura circolare resa evidente dalla reiterazione di una quartina che sembra permeare di sé l’intero testo “poetico”.

Dio non è nostro padre,

Dio è un nostro figliolo,

Dio è la favola bella,

di quando l'uomo era bambino...

Questa sorta di ritornello diviene anche l’idea caratterizzante dalla quale trova origine ed alimento la musica del M. Fernando Sulpizi che costruisce, sul testo di Diodati, una struttura musicale articolata in “6 quadri” per voce recitante, soprano, mezzosoprano, clarinetto in sib, clarinetto basso, vibrafono e percussioni originali, quelle creature musicali dotate di senso proprio - nate dall’intuizione e dalla fantasia del M. Sulpizi - che da sempre popolano come soggetti le opere del maestro perugino. L’estremo rispetto del testo si esplica in una corrispondenza musicale con le tre dimensioni umane delineate dal testo di Diodati. Questa sorta di moderno oratorio da camera, “in 6 quadri”, si presenta dunque con situazioni musicali fortemente caratterizzanti per tracciare i contorni di tre specifiche dimensioni dell’umano: la dimensione dell’uomo greco e della sua fedeltà alla terra e al ciclo della natura; la dimensione dell’uomo tecnologico che ciecamente avverte ogni limite superabile con il tempo; la dimensione dell’uomo religioso che sottrae il tempo al ritmo della natura per fornirgli un senso così come il cristianesimo aveva sottratto il tempo all’insignificanza del suo fluire e aveva inaugurato il concetto di storia.

In maniera inequivocabile ed affascinante la dimensione dell’uomo greco viene affidata musicalmente a quelle percussioni che hanno rappresentato e continuano a rappresentare in maniera così felicemente originale forse la vera cifra stilistica di Sulpizi. Le parole dell’historicus che narra la vicenda di Sarmel sono scandite da percussioni difficilmente rintracciabili al di fuori del mondo sulpiziano: clessidre ad acqua che fanno cadere gocce su di un piatto sospeso; wind chimes dai più diversi materiali e forme; piatti a mano percossi con bacchette di spugna, con bacchette di legno, di sughero, più o meno morbide o dure, o direttamente con le mani rivestite di guanti o con guanti con chiodi; campane di vetro che suonano frammenti di melodia che indifferenti si ripetono uguali a se stessi: anfore di vetro che prendono voce intingendo le dita nell’acqua e poi strofinate sulla superficie del vaso per ottenere, grazie ad un sapiente calcolo, suoni “interrotti” o glissati: calamite di ferro che vengono gettate su di una lastra di ferro a formare un disegno “informe”. Siamo di fronte ad un vero e proprio meta-teatro, siamo dentro al gran teatro della vita e della natura nel suo continuo fluire: situazioni irraccontabili che Sulpizi non a caso fa raccontare ad oggetti spesso rubati alla quotidianità che vivono nella sua dimensione artistica di una nuova vita. Attraverso l’oggetto sonoro acusticamente e visivamente si concretizza l’immagine della natura così come l’aveva concepita l’uomo greco: la natura, ciclo eterno di nascite e di morti, dove ogni forma di esistenza raggiunge il proprio compimento alla fine del suo ciclo, quando si estingue per nuove forme d’esistenza. È il mondo democriteo, casuale ammasso di atomi, elementi semplici di un cosmo concepito materialisticamente, da cui ogni finalismo è escluso. Ma Sulpizi più che a Democrito sembra far riferimento a Talete, il primo filosofo greco che cominciando a porre la centralità della questione dell’archè - ovvero di quale sia l'elemento primordiale da cui ogni altra cosa discenderebbe – identifica nell'acqua il principio primo. Non a caso lo strumento che Sulpizi pone all’inizio e alla fine del suo oratorio è una clessidra ad acqua: l’acqua come metafora del costante e indifferente fluire della vita, degli eventi, delle cose. Una realtà fluida che scandisce il tempo senza però dargli un senso.

La stessa mancanza di senso è presente anche nella visione del mondo dell’uomo tecnologico che Sulpizi affida al frenetico e virtuosistico incedere di due clarinetti che mai interrompono il proprio disegno vorticoso. Le melodie sulpiziane sono costruite in maniera tale che si racchiudano sempre su se stesse muovendosi, aggrovigliandosi ossessivamente spesso nell’ambito di una terza o di una quarta e quasi sempre per gradi congiunti: i due clarinetti sembrano dialogare in una sorta di gioco divertito ma in realtà non c’è possibilità di “comunicazione” tra i due strumenti perché è la stessa velocità a negarla. L’uomo tecnologico ha scelto la velocità che, per sua natura, nega ogni possibilità di approfondimento e di riflessione e quindi di vero contatto con le cose, le persone, il mondo. La visione musicale che ci offre Sulpizi è divertita e bonariamente ironica e si esprime attraverso un gioco musicale che sembra e vorrebbe creare tensioni ma che finisce per avvilupparsi su se stesso. La tecnica è forse la più grande illusione dell’uomo perché sembra svelargli, nel suo continuo potenziarsi e autoalimentarsi, una visione ottimistica del futuro: ottimistica perché prevedibile e perché non lascia spazio a niente altro se non all’accrescimento di se stessa. Ma quando la tecnica abbandona per un attimo la sua presa l’uomo è solo e avverte il suo limite: basta un leggero cedimento della mente per riaprire le porte del cuore e lasciare spazio a quella voglia di ulteriorità che è propria della natura umana. Squarci di liricità affidati al canto di due voci femminili, interrompono il moto continuo dei due clarinetti: il testo che viene musicato e cantato è il ritornello della ballata di Diodati: Dio non è nostro padre,/ Dio è un nostro figliolo,/ Dio è la favola bella,/ di quando l'uomo era bambino... Sulpizi dà voce alla nostalgia di Sarmel per un mondo che affermando razionalmente se stesso si è progressivamente allontanato dalla dimensione del sacro, la dimensione di quando l’uomo era bambino. È una dimensione questa di cui l’uomo non può fare a meno e di cui inconsciamente aspetta il ritorno. Non è un caso che il termine greco nostos significhi “ritorno”, e l’attesa del ritorno è alla base di tutti gli atteggiamenti nostalgici. Le due voci diventano rappresentazione della malinconia per il sacro, di cui il mito è certamente il primo riflesso. Le voci svelano, nel loro dialogo contrappuntistico, quel certo orizzonte enigmatico che sta al di qua della parola e delle sue possibili interpretazioni. Il mito, pur non essendo significante in sé, assume come modalità propria non il significare, quanto piuttosto l’indicare e il far apparire ciò che non è svelabile in altre forme. Ma Sulpizi opera un ulteriore passo in avanti e fa subentrare, nell’ultimo quadro, alla dimensione mitologica quella religiosa. Sergio Quinzio, uno dei più originali teologi ed esegeti del XX secolo, definì il mito come protologico in quanto rivolto al passato o al presente in cui il passato ritorna, mentre la religione come escatologica, perché il suo sguardo è rivolto al futuro o al presente concepito come attesa di redenzione e salvezza. L’ultimo “quadro” dell’oratorio si modella operando il passaggio dal mito al religioso. Parafrasando Diodati, Sulpizi musica le seguenti parole che sembrano lasciare spazio solo ad una possibile interpretazione in chiave religiosa: «Dio è Spirito per la materia/ Dio è musica che placa/ Voce di vita che non vuol morire». Galimberti ci ricorda che «dove la religione interseca il mito, il mito si estingue. La fede nel futuro vince sulla riproposizione del passato, la speranza liquida la nostalgia, perché lo sguardo si rivolge a ciò che deve ad-venire, non più a ciò che deve ritornare». Sarmel da profeta della nostalgia è divenuto profeta della speranza.

 

Fabiana Cruciani


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