Se stasera scatterà, come molti dicono, l’ora X e si darà fuoco alle polveri del partito contro il co-fondatore e i suoi amici, Berlusconi avrà deciso di suicidare il PdL dopo averne verificato la tenuta su due dei provvedimenti più delicati della legislatura: la manovra finanziaria, alla Camera, e la riforma dell’Università al Senato. Non sappiamo cosa succederebbe dopo. Speriamo, sinceramente, che qualcosa succeda prima, per scongiurare un esito che si ritiene scontato, ma che nessuno, usando il senso comune, potrebbe giudicare ragionevole.
L’invito del Presidente della Camera ad evitare una “mattanza” che non avrebbe né vincitori né vinti, andrebbe raccolto e perlomeno ascoltato. Non solo perché è giusto, ma perché è vero. Peraltro, se Berlusconi decidesse di licenziare Fini e i finiani, dichiarerebbe il fallimento dell’esperienza politica del PdL. Non del suo rapporto con Fini, non della convivenza tra una destra “normale” e una “speciale”. A fallire sarebbe proprio il berlusconismo, che da fortunata eccezione dimostrerebbe di non potere farsi regola, continuando invece a designare una fedeltà prima alla figura e poi, semmai, alla memoria del fondatore, al di fuori di ogni normalità non diciamo democratica, ma banalmente politica.
Berlusconi ha molte ragioni per ritenere insopportabile che gli si contenda il “suo” partito, ma ne ha di più (e di più politicamente solide) per accettare che la storia post-berlusconiana del centro-destra italiano inizi con lui non solo in vita, ma ancora saldamente in sella, e che si concluda con vincitori e vinti che non rispettano le sue consegne dinastiche. La parabola finiana potrà essere giudicata banalmente conformistica e non sufficientemente fedele all’originale berlusconiano, ma ha una sua forza obiettiva e un suo riscontro apprezzabile nelle evoluzioni del liberal-conservatorismo continentale. Non può essere espulsa come un’imbarazzante eresia “fascio-comunista”. Forse non basterà per conquistare la leadership post-berlusconiana, ma questo dovrebbe deciderlo il mercato (non il regolatore) e gli elettori (non i probiviri). O no?
Il governo è saldo, il partito non è. E stasera potrebbe nuovamente far coincidere il berlusconismo con la vicenda biografica del fondatore, come pensa il plenipotenziario Verdini, che ragiona come se Berlusconi fosse Padre Pio, e lui il priore di San Giovanni Rotondo. Come a dire: sul partito avevamo scherzato.
Carmelo Palma
(da Libertiamo.it, 29 luglio 2010)