Francesco Pullia su Notizie Radicali di ieri, Annalisa Chirico oggi, prendono, entrambi, decisamente posizione contro l’ipotesi di referendum sulla cosiddetta “acqua pubblica” (chiamiamoli così, per comodità e brevità). Per Francesco l’iniziativa «scaturisce da pura demagogia ma, a ben vedere, va contro gli interessi del cittadino ed è opera di pretestuosa disinformazione o, per meglio dire, di informazione distorta». E aggiunge: «Lo affermiamo nel pieno rispetto di chi in buonafede ha sottoscritto l’ingannevole quesito mirante ad avversare l'applicazione del decreto Ronchi».
Può essere. Non escludo che «la nazionalizzazione dei servizi pubblici, una statalizzazione obbligatoria che riconsegnerebbe il nostro paese ad un anacronistico sistema con costi aggiuntivi a quelli che già, come cittadini, siamo costretti a pagare. Non abbiamo proprio alcun bisogno di sprechi o di ulteriori squilibri nel pubblico bilancio». Conosco da tempo Francesco, so che non solo dice quello che pensa, ma – soprattutto – pensa a quello che dice; e si documenta, studia, analizza. Se esprime una posizione così netta molto probabilmente ha ottimi motivi che la sorreggono. Chi scrive, al contrario, non azzarda una posizione né a favore né contro; confesso, insomma, la mia ignoranza in materia. Sono lieto che della questione si cominci a parlare e riflettere; c’è solo da sperare che il confronto e la discussione proseguano.
Non credo però aiutino al confronto e alla riflessione approcci come quelli che ci suggerisce Annalisa Chirico. Parla di rischio di «sovietizzazione dell’acqua». Si assisterebbe a una «falsificazione propagandistica… messa in atto dai referendari contro l’inesistente privatizzazione dell’acqua». Ancora: «Quattro partitini e la mega struttura di un sindacato confederale (la CGIL) hanno depositato in Cassazione i tre quesiti referendari che, se giudicati ammissibili ed eventualmente approvati, farebbero fare al Paese un salto indietro di trent’anni. Un milione e quattrocentomila cittadini ingannati in nome di slogan popolari e populisti»; avrebbero fatto leva su «uno spauracchio mostruoso dai maoisti dell’acqua…», cui interessa «fare la Rivoluzione, innanzitutto culturale. Riaffermare il “bene comune”, difendere la volontà popolare, scardinare il sistema». Si parla di «mastodontica campagna di disinformazione orchestrata da quattro nostalgici»; e infine ci si annuncia che «per questo che ho aderito al Comitato promotore per il NO alla sovietizzazione dell’acqua».
Adesione che avrà senz’altro una sua indubbia rilevanza e significativa portata, decisiva per la causa del NO… Fuor di celia: argomenti per essere contrari al referendum, senz’altro ce ne saranno, e anche di buoni anche senza scomodare il mio amico Alberto Mingardi, ultra-liberista di cui ho sempre invidiato la sua capacità di saper coniugare Sergio Ricossa e Michela Brambilla. Però perché involgarire tutto con indubbie cadute di stile? “Sovietizzazione”, “maoisti dell’acqua”… E poi: “mastodontica campagna di disinformazione orchestrata da quattro nostalgici…”. Addirittura! E dove l’abbiamo vista questa “mastodontica campagna di disinformazione”? Su “TG1”, “TG2”, “TG5”? O, al solito, è il “TG3”? Chi scrive, sarà stato disattento, ha visto solo una mastodontica campagna di silenzio, che è la caratteristica di tutte le campagne referendarie, chiunque ne sia promotore… E per dirla tutta: sono toni, sono accenti che mi fanno tornare ai tempi di un tempo: quando a raccogliere le firme eravamo noi radicali, e così venivamo bollati dall’allora PCI. Li conservo ancora, quei ritagli dell’Unità, del Paese Sera… Come si vede, più che di sostanza, faccio una questione di forma. Ed è una “forma”, nessuno si senta offeso, decisamente sgradevole; e si dirà che bado al “dettaglio”, invece di badare alla carne del problema. Probabilmente è così, ma come si dice, è nel dettaglio che il demonio ha l’abitudine di albergare.
Massimo Gramellini, che mi riesce difficile supporre sia un agente dei sovieti, e credo non sia maoista effettivo od onorario, su quell’organo della disinformazione nostalgica che forse è La Stampa, ha scritto una breve nota sulla quale suggerisco di spendere una riflessione:
«Sarà l’afa, o l’appiccicaticcio che trasuda dalle intercettazioni, ma in questa estate gelatinosa si sentiva il bisogno di un sorso d’acqua pura. Quasi un milione e mezzo di italiani, ormai indotti a scansare come la peste i banchetti della firmocrazia, hanno apposto il loro autografo sotto la richiesta di referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Un record (neppure per il divorzio erano stati così numerosi), consumato nel sostanziale silenzio dei partiti e dei media, che all’argomento hanno riservato solo qualche tiepida polemica. Poiché si ripromette di cancellare una legge di sinistra e una di destra, la battaglia per l’acqua non ha eccitato le opposte tifoserie. E poiché nessuno l’ha “buttata in politica” (ci ha provato Di Pietro, ma è stato messo da parte), questa raccolta di firme è forse la scelta più politica che sia stata compiuta negli ultimi anni: difendere la natura pubblica di un bene essenziale, e farlo in un Paese che considera ciò che è pubblico una terra di nessuno, anziché un patrimonio di tutti. A mettere in moto quel milione e mezzo di biro non è stato un esame ponderato dei pro e dei contro, ma uno slancio naturale, quasi un impulso atavico: l’acqua è vita, e non si privatizza la vita. Ai cinici sembrerà l’apoteosi del buonismo. Ma a noi, che cinici non siamo, e che veniamo da decenni in cui l’idea di bene comune si è progressivamente ridotta fino a coincidere con l’orticello del proprio clan, piace sperare che quest’alluvione di firme per “l’acqua di tutti” sia il preludio di un cambio di stagione».
Ad aggravare la mia posizione, citerò Michele Serra e la sua “amaca” su Repubblica:
«La notizia della valanga di firme contro la gestione privata dell'acqua è in controtendenza rispetto al rassegnato andazzo degli ultimi tempi. Ma è bene sapere in anticipo, finché abbiamo il tempo per preoccuparcene, che sarà difficilissimo raggiungere il quorum necessario: l'istituto del referendum è stato svuotato dal suo dissennato abuso. E i telegiornali governativi hanno già dato ampia prova di non considerare degna di nota una mobilitazione popolare così nevralgica, e spontanea. Nonostante sia appeso a un filo, questo referendum è salutare. Ben al di là degli aspetti tecnici, è animato dalla convinzione - sacrosanta - che non tutto può essere oggetto di lucro. Che il valore delle cose non è stimabile solo in termini di mercato. Nonostante una gestione pubblica molto mediocre degli acquedotti (quasi un terzo dell'acqua va disperso), la prospettiva di un intervento salvifico dei privati è puramente ideologica (cioè non confortata da riscontri oggettivi), e per giunta è gravata dall'odiosa idea che si possa speculare su un bene basico, elementare, sacro alla vita. Rinunciare alla speranza di una gestione pubblica efficiente equivale a rinunciare al concetto stesso di Stato. La battaglia per l'acqua pubblica diventa, qui e ora, una battaglia politica fondamentale».
È possibile che Gramellini e Serra siano dalla parte del torto, che la loro sia una posizione sbagliata e che il referendum sia qualcosa di negativo (ed è possibilissimo che io sostenga una quantità di corbellerie). Però i loro argomenti, di Gramellini e Serra, non si annullano dando loro dei sovieti e dei maoisti. Quel milione e quattrocentomila di firmatari: ma sarebbe utile, necessario e opportuno cercare di parlarci, capirne le ragioni, discutere con loro. Forse saranno stati ingannati, forse saranno “nostalgici”. Ma, chissà, fossero anche loro parte di quella parte di paese che non si è rassegnata, non si è rincoglionita davanti alle TV berlusconesche, e ancora cerca di reagire? Io non mi sento di escludere a priori che quel milione e mezzo circa di cittadini non facciano parte della “mia” gente, della “mia” parte. Quella gente, quella “parte” che a volerci parlare forse si scoprirebbe più vicina a noi, e perfino meno ingannata, di quanto noi si creda e sospetti. È un dubbio, appena un punto interrogativo, quello che pongo; ma, cari Annalisa e Francesco, non ci hanno forse insegnato che il dubbio è il sale della vita? Sbaglio, se riassumo il tutto in dubito, ergo sum?
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 23 luglio 2010)