La lettura del discorso tenuto da papa Benedetto XVI ad Auschwitz-Birkenau suscita alcune considerazioni, sia per quello che ha detto, sia per quello che ha taciuto: i silenzi sono più eloquenti e più inquietanti delle parole; le cose dette sono accompagnate dall'omissione di parole che avrebbero dovuto essere dette.
1. «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? Dov'era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto?» Il papa ha ripreso una domanda che i Salmi di Israele pongono a Dio, senza remore, da adulti nella fede. Un conto, però, è se questa domanda, anzi questa protesta, la pongono quelli che ad Auschwitz morivano o ad Auschwitz sono sopravvissuti, un conto è se la pone un cristiano sul luogo del loro patibolo, un tempo circondato da una massa di cristiani indifferenti, più spesso corrivi o direttamente complici. «Dov'è Dio?» non è stata la sofferta preghiera dei cristiani rispetto ad Auschwitz. Negli anni del nazismo le chiese cristiane non hanno invocato il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù perché intervenisse a favore del suo popolo Israele e neppure lo hanno fatto per molto tempo dopo. Non «dov'era Dio?», ma «dove erano i cristiani, in particolare i vertici delle chiese?»: questa è la prima e più drammatica domanda che ogni cristiano – tanto più il papa che pretende di parlare come vicario di Cristo e pastore della chiesa universale – doveva porre ad Auschwitz. Non dell'imperscrutabile segreto di Dio, ma delle scrutabilissime responsabilità dei cristiani doveva parlare. Doveva dire una parola sul rapporto tra il secolare e radicato antigiudaismo cristiano, virulento anche nella sua chiesa nei decenni che precedono la Shoah, e lo sterminio nazista. Avrebbe dovuto ricordare che l'odio antiebraico è uno dei risvolti sinistri delle da lui tanto celebrate radici cristiane dell'Europa e che è stato propagato da predicatori e teologi di ogni confessione, da vescovi, cardinali e papi, non da "figli della chiesa" sviati. Avrebbe potuto lasciarsi ispirare dalle voci significative di tanti cristiani della sua terra che hanno detto, ad esempio: «Dichiariamo che, con le nostre omissioni e con i nostri silenzi, siamo stati complici davanti al Dio della misericordia del crimine che è stato commesso contro gli ebrei da membri del nostro popolo» (Dichiarazione del Sinodo della Chiesa evangelica di Germania, Weissensee, 1950), oppure: «Riconosciamo la corresponsabilità e la colpa dei cristiani nell'olocausto, nella diffamazione, nella persecuzione e nell'assassinio degli ebrei nel terzo Reich» (Sinodo evangelico della Renania, 1980). Avrebbe dovuto dire, insomma, che il primo pensiero di un cristiano ad Auschwitz è quello della colpa della propria chiesa, non quello dei silenzi di Dio. Nulla di tutto questo si trova nel suo discorso.
2. Solo partendo dal riconoscimento delle colpe della propria storia, il tema della riconciliazione – una delle parole più ricorrenti nel discorso papale – avrebbe potuto avere una vera pregnanza e l'auspicata “purificazione della memoria” non avrebbe eluso i drammatici interrogativi che pone la storiografia. Come molti hanno già rilevato, la sua lettura della storia tedesca durante il nazismo come quella di un «popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde», di un popolo «usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio», è una interpretazione revisionistica. Come se non sapessimo nulla della storia, come se non sapessimo che con quel «gruppo di criminali» un suo predecessore stipulò un concordato invece di condannarlo, come se non sapessimo che l'altra metà della cristianità tedesca, quella protestante, a quel «gruppo di criminali» diede il suo appoggio. Come se non sapessimo che, salvo poche, sparute eccezioni – che il Papa non ha menzionato, dalla Rosa Bianca al gruppo di cospiratori dell'ammiraglio Canaris – non ci fu una resistenza tedesca a quella che Bonhoeffer ha definito «la grande mascherata del male». Se di tutto questo ci si ricordasse, “la Chiesa” non sarebbe risparmiata dal fango e dal sangue della storia umana e le sarebbe molto più difficile parlare ad Auschwitz. Invece, l'immagine che esce dal discorso del Papa ad Auschwitz è quella della “Chiesa” che può parlare a nome di tutti i popoli, per tutte le colpe, perché in fondo essa non ne ha, che può tutto riconciliare e purificare come se fosse super partes.
3. Il papa ha voluto parlare anche come «figlio del popolo tedesco». Non si capisce perché, allora, ha parlato in italiano. Avrebbe dovuto avere il coraggio dell'ex presidente della Repubblica Federale di Germania, Johannes Rau, recentemente scomparso, un pio cristiano, predicatore laico nella sua chiesa, che in tedesco si rivolse alla Knesset, il parlamento di Israele, uditorio ben più difficile della paludata delegazione che ascoltava il Papa ad Auschwitz. La lingua che ad Auschwitz non può che suonare sinistra a memoria d'uomo avrebbe potuto esprimere con la massima pregnanza il no all'orrore che essa stessa ha veicolato. Oppure avrebbe potuto ricordarsi di Willy Brandt, che si inginocchiò in silenzio. Parla di più un tedesco ammutolito che un tedesco che parla italiano. (NEV 22/06)
Daniele Garrone
decano della Facoltà valdese di teologia di Roma
(da Ecumenici “Leonhard Ragaz”, 01/06/2006)