Una maestra con poco carattere, di cui non farò il nome, che svolgeva il proprio mestiere in una delle scuole elementari dove ho studiato quando il lavoro di mio padre – meccanico di montaggio industriale – spostava la famiglia come un saltimbanco per tutta Cuba, aveva ideato uno stratagemma per mantenere calmi e disciplinati i suoi alunni molto irrequieti. Il metodo non era in verità molto pedagogico, ma era indiscutibilmente efficace: con un vecchio manico di scopa come colonna vertebrale, lei (o altri) aveva elaborato un bambolotto artigianale somigliante a uno spaventapasseri; la testa era stata abilmente confezionata con una vecchia palla bucata con della cartapesta sulla quale avevano colorato con acquarelli la bocca e gli occhi, mentre una protuberanza esageratamente grande faceva da naso su quel viso accigliato. Il tutto veniva coronato da abbondanti capelli di corda, agitati sufficientemente per dare al bambolotto un aspetto feroce. Lo spauracchio si chiamava Mamerto, “viveva” nell’armadietto dell’aula della seconda elementare e, almeno all’inizio del corso, il solo riferimento era in grado di tranquillizzare il più discolo degli educandi. La minaccia latente era che Mamerto, un soggetto dal pessimo carattere, stava scomodo nello stretto armadietto, quindi se ti comportavi male, il castigo sarebbe stato quello di portarlo a vivere con te, in casa tua, nel tuo letto.
La verità è che mai nessuno aveva visto bene Mamerto. Era sufficiente che in mezzo al chiasso infantile la maestra facesse a voce alta il suo nome e aprisse leggermente la porta dell’armadietto lasciando affacciare appena una parte dell’aggrovigliata capigliatura del pupazzo perché nell’aula cadesse un silenzio di tomba e tutti gli occhi si sgranassero in allarmata attesa. Quella era una paura condivisa, generale, contagiosa ma allo stesso tempo un po’ incredula. In fondo quasi tutti noi bambini intuivamo che Mamerto era una beffa, soprattutto i più turbolenti e temerari, perciò la maestra non si sbilanciava mai nel mostrare chiaramente lo spauracchio e si premuniva di lasciare ben chiuso a chiave l’armadietto quando usciva dall’aula. Per alcuni di noi, me compresa, la saga di Mamerto conservava – nonostante tutto – un certo fascino adrenalinico e una buona dose di curiosità, cosicché non fu strano che un giorno alcuni miei compagni di classe più coraggiosi (i bambini possiedono la saggezza naturale di allearsi nelle loro campagne difficili) riuscissero ad aprire l’armadietto e scoprissero la vera essenza inanimata e indifesa di Mamerto e, successivamente, l’infelice pupazzo si convertì nel fulcro delle birichinate dei bambini: veniva collocato su qualche banco di scuola, coricato sulla lavagna o spogliato dei pantaloni, provocando il riso generale al posto del vecchio timore. Mamerto, la minaccia, si era convertito in una caricatura. Il pupazzo finì per annoiare tutti e rimase dimenticato nell’angolino del suo armadietto, fino a quando scomparve definitivamente. La maestra provò a sostituirlo con un cane di cartone e persino con un gallo, ma senza successo. Se tutta l’aula aveva vinto la paura di Mamerto, nessuna comparsa minore poteva soppiantarlo.
In qualche modo, pochi giorni fa, alcune immagini apparse sulla stampa ufficiale e sulla TV mi hanno ricordato la lezione quasi dimenticata di Mamerto.
Miriam Celaya
(da sin EVAsión, 19 luglio 2010)
Traduzione di Francesca Desogus
desogus.francesca@tiscali.it