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Io, Federico Aldrovandi e la Guerra 
La civiltà di una famiglia in risposta ad un massacro che continua. In una lettera indirizzata al Direttore della “Nuova Ferrara”
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L'inizio del processo. Al centro Lino Aldrovandi (papà di Federico) e, seduta, Patrizia Moretti 
19 Luglio 2010
 

Caro direttore,

mi sono decisa ancora una volta ad intervenire dopo aver letto l’articolo di fondo di domenica del suo giornale e gli articoli successivi relativi a quello che ormai sta diventando il caso Guerra. Perché ormai, lo possiamo dire, non c’è più un caso Aldrovandi ma c’è un caso Guerra.

Leggendo soprattutto l’articolo di oggi nel quale si dà cronaca del fatto che il magistrato pm ha praticamente querelato tutto e tutti da una parte e dall’altra, mi ha fatto tornare in mente quella che era la nostra situazione durante i primi mesi di indagine sulla morte di Federico, quando esse erano affidate proprio alla dottoressa Guerra.

Allora era la nostra parola contro quella di quattro poliziotti ma anche di tutta la Questura e anche della Procura stessa, che aveva preso posizione sulla morte di mio figlio escludendo che questa potesse essere stata causata dalle percosse subite.

Eravamo i soli, o almeno così ci sentivamo, a non credere nelle versioni ufficiali che attribuivano la morte di Federico ad un malore o, peggio, ad un’overdose.

Con noi c’erano solo i nostri primi due avvocati e gli amici più stretti, non c’era nessun altro.

Io non porto rancore verso nessuno, se non nei confronti di quei quattro che hanno causato la morte di mio figlio, e in quei lunghi mesi capivamo anche le difficoltà che incontravamo perché la gente giustamente, ed era logico e comprensibile, credeva alla versione fornita dalla questura, risultando ben più difficile da accettare e comprendere la verità di quanto successo realmente.

Il nostro era un isolamento causato dalla stessa tragedia che ci aveva colpito, che era assolutamente difficile da capire e da comprendere. Era un isolamento dal quale piano piano siamo usciti attraverso l’aiuto dell’allora Sindaco di Ferrara Sateriale, attraverso l’aiuto del blog e attraverso anche il vostro aiuto.

Di ciò che è accaduto quel 25 settembre in via Ippodromo si è sempre continuato a parlare, a discutere, anche a dibattere. Spesso abbiamo trovato anche sul Suo giornale cronache o interpretazioni dei fatti che non abbiamo condiviso perché non li sentivamo aderenti alla realtà.

Ma comunque si è sempre continuato a parlarne, comunque la cronaca giudiziaria degli atti di indagine o di alcuni episodi ha fatto si che le coscienze si risvegliassero e ha fatto si che si potesse percorrere il cammino sicuramente lungo, tortuoso, difficile ma comunque sempre diretto alla conoscenza della verità.

Questo caso giudiziario ha fatto numerose vittime, perché ciò che è successo a Federico è stato correttamente definito come una ferita all’intera città, e anche alla credibilità di parte delle istituzioni, comunque di persone che ricoprivano e ricoprono ruoli istituzionali importanti.

Io ovviamente come madre non mi sono mai potuta né voluta occupare delle altre vittime perché per me era già troppo dover piangere la morte di un figlio di appena 18 anni e sopportare ciò che su di lui soprattutto, ma anche contro di noi, veniva detto.

Sciacalli, calunniatori. Questi erano gli epiteti che venivano rivolti a noi e a coloro che ci sostenevano, che pian piano diventavano sempre più numerosi.

Da parte nostra abbiamo sempre riconosciuto la vostra buona fede, e vi abbiamo sempre rispettato perché comunque avete avuto il coraggio di dare voce fino in fondo alle proteste spesso veementi nostre e dei nostri avvocati verso quella che ritenevamo, sempre di più, essere un’indagine carente e non corretta.

Non ho mai pensato di querelarvi, ma ho sempre cercato di portare le mie ragioni nel modo in cui ero capace con tutto l’equilibrio che poteva avere una madre privata in modo così brutale ed improvviso di ciò che ha più caro.

 

La storia Lei la conosce, l’isolamento è scomparso e le cronache giudiziarie sono ormai note a tutti dopo le due sentenze, sia pure di primo grado, che sono state già pronunciate.

La fatica è stata enorme ed il prezzo da pagare in termini morali, emotivi è stato terribilmente pesante.

Chiunque abbia assistito a quelle 30 udienze alle quali non siamo mai mancati, non può non riconoscerci la grande forza che io e mio marito abbiamo dimostrato nel dover assistere a determinati comportamenti, interrogatori, esami, dichiarazioni spontanee, valutazioni medico-legali e anche invettive che spesso sono state lanciate nei nostri confronti o nei confronti di nostro figlio.

Noi non abbiamo mai querelato nessuno.

Nostro figlio è stato definito un drogato quando drogato non era, ma noi non abbiamo querelato.

È stato definito un pazzo furioso, quando le assicuro che pazzo non era, ma noi non abbiamo querelato.

Noi crediamo che senza la stampa, senza i media, senza televisioni, non sarebbe mai stata fatta giustizia. E mi pare che non siamo certo gli unici a pensarla così.

Quando addirittura abbiamo avuto conoscenza proprio dalla stampa delle vicende giudiziarie del figlio della dottoressa Guerra, che aveva condotto quei primi maledetti mesi di indagine, il quale era stato accusato e poi condannato per spaccio di droga ad un minore, ci siamo detti quanto può essere spietatamente ironico il destino. Ricordo che lei stessa, nell’occasione in cui la incontrai insieme a Lino, nel manifestarci, o almeno crediamo fosse questo, la sua solidarietà per quanto accaduto a Federico, ci fece presente del fatto che occorre stare sempre attenti a dove sono i nostri figli, e che lei lo era in particolar modo. Ci disse: “Io so sempre dov’è mio figlio”. Lo ricordo perché noi ci sentimmo in colpa perché in effetti quella mattina non sapevamo dove fosse Federico.

E se avessimo saputo dov’era sarebbe certo ancora vivo.

Ricordo quel giorno quando venne pubblicato l’articolo delle due mamme contro, dove la mia foto era a fianco di quella della dotteressa Guerra. Due mamme con due figli maschi, quasi coetanei.

Uno morto dichiarato drogato, l’altro spacciatore che poi verrà condannato.

In quel momento l’unica cosa che mi venne da esprimere fu la solidarietà come mamma, ma anche un po’ di invidia perché confesso che preferirei avere un figlio con guai giudiziari ma vivo, piuttosto che un figlio incensurato ma morto.

 

Ora lo stato vuole ricucire quella ferita che con noi, o attraverso di noi, si è aperta.

E noi non abbiamo più energie da spendere nemmeno per alimentare rancori o odi personali che avremmo ben diritto di avere.

Noi vogliamo ricucire quella ferita restituendo a Federico Aldrovandi, non la vita perché purtroppo non è possibile, ma almeno la dignità che con quella morte gli è stata tolta.

Ora ad essere isolati non siamo più noi, ma è la dottoressa Guerra, che querelando tutto e tutti sembra non voler accettare il ruolo che purtroppo ha avuto in tutta questa vicenda.

Ora è lei ad essere isolata. Quando addirittura abbiamo visto riportare dal suo giornale la tesi difensiva da parte dell’avvocato di suo figlio che attribuiva i suoi guai giudiziari ad un complotto legato al caso Aldrovandi, cioè a noi, abbiamo amaramente preso atto che si era veramente oltrepassato ogni limite di razionale dignità e decenza: Federico doveva essere responsabile non soltanto della sua stessa morte, ma anche dei guai giudiziari del figlio della pm che su quella morte indagava. Tutte colpe di Federico e nostre.

Questi articoli sono stati più di uno, ricordo, ma non abbiamo querelato.

E non lo abbiamo fatto non per paura o per mancanza di amore nei confronti della verità, ma per due motivi. Il primo è per rispetto del diritto di cronaca comunque ed in ogni caso, nella consapevolezza che la verità sarebbe emersa, così come è stato. E il secondo per cristiana pietà nei confronti della disperazione di una madre che non voleva accettare la realtà.

Io non so che cosa la dottoressa Guerra Mariaemanuela voglia da me e dalla mia famiglia, non so e non capisco che cosa quei quattro condannati vogliano da me o dalla mia famiglia dopo quello che è stato e nonostante il fatto che si stia tentando di ricucire la ferita che si era aperta tra noi e la Polizia di Ferrara. Ma quello che vedo è un isolamento disperato che non ha nessuna possibilità di rompersi perché non è figlio della verità, della consapevolezza di giustizia. Così io credo.

 

Patrizia Moretti Aldrovandi

(da Nuova Ferrara, 10 luglio 2010)


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