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Miriam Celaya. Una discussa mediazione
19 Luglio 2010
 

Le conversazioni tra il governo cubano e l’alta gerarchia cattolica dell’Isola, iniziate lo scorso mese di maggio che hanno portato alla graduale liberazione di tutti i prigionieri politici della Primavera Nera, non solo hanno catturato l’attenzione della stampa estera, ma hanno anche generato numerosi dibattiti tra differenti settori dell’opposizione e della società civile indipendente all’interno di Cuba. Molti leader si sono sentiti offesi per la loro esclusione dal processo.

Non credo sia necessario parlare qui di quel che sappiamo, cioè dell’importante ruolo giocato da tutti gli elementi che hanno portato a un esito così positivo come la liberazione dei cubani prigionieri, vittime del totalitarismo dal 2003. La tenace e pacifica lotta delle Damas de Blanco per sette anni è stata la goccia d’acqua costante sulla roccia; la morte di Zapata Tamayo; l’altruismo e la dignità di Guillermo Fariñas con il suo sciopero della fame, è stato il colpo di grazia. Senza questi tre pilastri nulla sarebbe stato possibile. Senza dubbio, obiettivamente in ciò convergono altri fattori non meno importanti, tra essi, la grave crisi economica e sociale del regime, la sua perdita di credito tanto all’interno dell’Isola che agli occhi del mondo, le pressioni internazionali, l’asfissiante debito estero, la diminuzione o l’assenza di investitori stranieri, la rottura del controllo assoluto dell’informazione grazie all’utilizzo di nuove tecnologie delle comunicazioni (nonostante le note limitazioni di applicazione nell’ambito cubano) e il discreto incremento di settori indipendenti nella società che hanno esercitato sempre più una forza constante per l’apertura di spazi critici, smuovendo dal proprio territorio cubano lo spettro delle opinioni su tematiche più diverse. Senza contare tutta la storia di 51 anni di resistenza dissidente, in differenti toni e tendenze.

Solo pochi anni prima, il regime non avrebbe ceduto di fronte a nessun tipo di richiesta di dialogo - né con la Chiesa Cattolica, né con nessun altro attore sociale di Cuba -, ancor meno trattandosi della liberazione di coloro che ha sistematicamente demonizzato come “nemici”, “mercenari”, “traditori”, e altri epiteti dello stesso stile e contro i quali ha pubblicamente aizzato le sue belve ogni volta che l’ha ritenuto opportuno. Non bisogna crearsi false aspettative: in sostanza si tratta della stessa dittatura. La libertà di questi cubani oggi rappresenta la moneta di scambio per cercare di recuperare il favore del mondo, ma è allo stesso tempo una sconfitta per l’autocrazia, che d’altra parte avrà come conseguenza il guadagnare terreno per debilitare gli oppositori.

In mezzo a questa congiuntura, emerge il ruolo della Chiesa Cattolica nel mediare il conflitto per cercare una soluzione e - come suole accadere in ogni situazione critica tra cubani - si producono accesi dibattiti e si prendono posizioni polarizzate sulla legittimità o meno della Chiesa come mediatore, o sull’autorità morale del Cardinale Jaime Ortega per adempiere a tale compito. Da parte mia, partendo dal presupposto che non sono cattolica, né pratico alcuna religione, considero positiva l’azione della Chiesa in tale circostanza, in quanto cerco di analizzare il momento e le circostanze a mente fredda. È un compito difficile, certamente, ma è necessario affrontare i fatti così come sono: la dittatura è debilitata e si è vista obbligata a cedere, ma questo non implica che abbia perso il controllo o che l’opposizione e la società civile siano sufficientemente consolidate per condizionare la negoziazione e avere spazio nelle conversazioni. Le autorità si riservano il diritto di scegliere l’interlocutore, e sappiamo che ancora (e dico appositamente “ancora”) non riconoscono l’opposizione come tale o altri settori indipendenti; riconoscerci sarebbe una mossa suicida che non faranno, non ora almeno, e non volentieri se dovessero essere obbligati a farla. In tali circostanze, non conosco istituzione tanto solida o di tanta portata sociale a Cuba come la Chiesa Cattolica, istituzione che, nel suo insieme e nel suo operato, è molto più della figura individuale di Jaime Ortega.

Però, effettivamente, bisogna riconoscere che con questo primo passo siamo riusciti a raggiungere l’obiettivo fondamentale, quello di liberare i prigionieri della Primavera Nera - il che implica una vittoria della resistenza civica e, come ben direbbe Fariñas, di tutta Cuba -, nella quale anche la Chiesa ha giocato un ruolo significativo.

È nostro compito, come cittadini liberi, continuare a fare pressione spingendo contro il muro. Sappiamo che la dittatura tenterà di mantenere tutto il potere possibile per più tempo possibile; bisogna essere consapevoli che la nostra strada è lunga e ripida. Credo che sia ugualmente nostra responsabilità appoggiare tutti i movimenti, i tentativi di riconciliazione o di apertura che ci avvicinino alla democrazia, poiché quelle crepe nel regime ci rafforzeranno solo nella misura in cui sapremo sfruttarle. Anche se sono contenta per la liberazione di almeno una parte dei cubani che sono usciti dalle carceri o che aspettano una pronta liberazione, non sono soddisfatta. Secondo me la Chiesa non potrà monopolizzare eternamente la mediazione, in futuro dovrebbe cercare di difendere anche il diritto del popolo a rappresentarsi da solo, soprattutto per ciò che riguarda la politica. Anche noi dobbiamo dimostrare responsabilmente e serenamente, che siamo cresciuti abbastanza e che non vogliamo più andare avanti avendo un “Papà Stato”, e allo stesso tempo (senza alcuna intenzione di offendere e con tutto il mio rispetto), che non abbiamo neanche bisogno di una “Mamma Chiesa”.

 

Miriam Celaya

(da sin EVAsión, 14 luglio 2010)

Traduzione di Francesca Desogus

desogus.francesca@tiscali.it


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