Agli albori del più spaventoso conflitto del secondo millennio, Antonia Pozzi aveva 26 anni e un temperamento appassionato, sensibilissimo e malinconico. Nel 1935 si era laureata con Antonio Banfi con un lavoro sulla formazione letteraria giovanile di Flaubert, che le era valso un prestigioso riconoscimento accademico. I colleghi della cosiddetta “Scuola di Milano” apprezzavano molto la qualità del suo lavoro critico e ne prevedevano un futuro di promesse. Promesse che non furono mantenute, perché il 3 dicembre 1938 Antonia poneva fine alla sua vita.
Pochissimi, anche tra gli amici più cari, sapevano che la sua innata vocazione era quella poetica: un estremo pudore le proibiva di svelare il suo mondo interiore.
Fu il padre a trovare i suoi testi poetici e privati e a prepararli per la prima pubblicazione. Da quel lontano 1939 la fortuna poetica della Pozzi si è costantemente dilatata. Specie negli ultimi vent’anni si sono succedute le edizioni dei suoi testi, le traduzioni e studi critici, anche recentissimi, di grande valore.
Poco più di un anno fa, in occasione settantesimo anniversario della morte, la “sua” Università Statale di Milano le ha dedicato un ampio Convegno, nella splendida cornice della “Sala Napoleonica” e della Sala di Rappresentanza del Rettorato. Dal 24 al 26 novembre 2008 si sono succeduti al tavolo dei relatori più di venti studiosi, a trarre le fila dell’indagine critica degli ultimi anni e a proporre interpretazioni e linee di approfondimento per il futuro.
Nello scorso mese di novembre, a un anno di distanza, la casa editrice Viennepierre di Milano ha pubblicato il volume degli Atti, che ne dà conto esaurientemente, cosa che non è possibile fare in questa sede. Mi limito, quindi, ad alcune notazioni.
In primo luogo, sorprende l’interesse vigorosamente crescente sulla poesia di Antonia Pozzi. Sempre più numerosi i lettori ed i critici. Sintomatico che tra i relatori di questo convegno, molti fossero i giovani studiosi. La storia della fortuna critica è stata ripercorsa da Graziella Bernabò, autrice anche di una accuratissima e criticamente ineccepibile biografia di Antonia. Sulla scorta delle relazioni di Fulvio Papi e di Gabriele Scaramazza, che avevano approfondito i rapporti tra la Pozzi e il gruppo dei discepoli di Banfi (tra tutti, Enzo Paci, Remo Cantoni, Dino Formaggio e Vittorio Sereni), la Bernabò ha sottolineato come quell’ambiente intellettualmente molto avanzato e fortemente razionalista fosse rimasto sconcertato di fronte alla complessa personalità di Antonia e avvertisse come un “disordine” la sua preponderante attenzione per l’ambito relazionale ed emozionale. «Oggi si valorizzano proprio quegli aspetti che allora rendevano perplessi. La sua è una poesia del senso dell’esistenza […], una poesia che esalta, e non raggela, l’emozione».
L’affermazione è convincente: di un quadro culturale come quello attuale (nei suoi piani alti), anelante al senso e alla bellezza e al tempo stesso come smarrito e privo di punti di riferimento, in balia dei suoi stati emotivi, la Pozzi – mi pare – è interprete profetica e affascinante.
Tema centrale per la sua comprensione è il ruolo della poesia in Antonia Pozzi: una vocazione esistenziale insopprimibile. L’evento catalizzatore, ancora una volta, è il gruppo dei banfiani (Sereni a parte), convinto che ormai solo la prosa sia lo strumento adatto a reinterpretare il mondo contemporaneo. E Antonia proverà a dedicarvisi. Ma intanto, il 4 febbraio 1935, forse avventatamente, in un’ansia di riconoscimento, fa leggere ad Antonio Banfi un manipolo delle sue poesie, La vita sognata. Il professore, signorilmente, la incoraggia alla prosa. Poco dopo anche Remo Cantoni farà lo stesso. L’effetto è squassante. Un’ulteriore conferma che la creazione poetica chiede di essere pagata con la solitudine; non è fuga e consolazione ma «catarsi del dolore».
Il tema, toccato da vari relatori, è stato approfondito da Onorina Dino, Conservatrice dell’Archivio Pozzi e curatrice di tutte le sue opere. La Dino fa notare che, pochi giorni dopo l’incontro con Banfi, Antonia scrive una lirica dal titolo rivelatore: Un destino.
Lumi e capanne
ai bivi
chiamarono i compagni.
A te resta
questa che il vento ti disvela
pallida strada nella notte:
alla tua sete
la precipite acqua dei torrenti,
alla persona stanca
l’erba dei pascoli che si rinnova
nello spazio di un sonno.
In un suo fuoco assorto
ciascuno degli umani
ad un’antica vita si abbandona.
Ma sul lento
tuo andar di fiume che non trova foce,
l’argenteo lume di infinite
vite – delle libere stelle
ora trema:
e se nessuna porta
s’apre alla tua fatica,
se ridato
t’è ad ogni passo il peso del tuo volto,
se è tua
questa che è più di un dolore
gioia di continuare sola
nel limpido deserto dei tuoi monti
ora accetti
d’esser poeta.
Conclude Onorina Dino: «da questa accettazione ha inizio l’ascesa, cammino interiore. Ha trovato la sua foce. Ha deciso».
In terzo luogo è necessario segnalare l’intervento appassionato e convincente di Cristiana Dobner, di cui pochi mesi prima Marietti aveva dato alle stampe un importante saggio sull’immaginario di Dio in Antonia Pozzi. Sovente la poetessa è inclusa in antologie di poesia cristiana, piuttosto impropriamente, a giudizio di chi scrive. Come nella stessa mattinata aveva giustamente fatto notare Claudio Milanini, quella della Pozzi è una «religiosità profonda e sincera, ma mai cristiana (denuncia sempre il silenzio dell’ipotetica deità), piuttosto panteista». Con profondità ed onestà, la Dobner, che è suora e vive nel Carmelo di Concenedo di Barzio (LC), conferma questa affermazione; analizza a fondo i testi di Antonia («le sue poesie possono essere davvero comprese solo se lasciate a lungo sedimentare») e riesce a cogliere le coordinate psicologiche e interiori portanti. Intervento applauditissimo.
Le relazioni hanno poi toccato ambiti in cui la critica comincia ora a cimentarsi. Liana Nissim, da francesista, rilegge la tesi di laurea su Flaubert non solo nell’ottica della biografia pozziana ma nel quadro della critica sul maestro francese, con sorprendenti acquisizioni; Giuseppe Sergio inaugura uno studio serrato sulla lingua di Antonia, per ora sui testi della scrittura privata (i diari e le lettere); Matteo Mario Vecchio ricostruisce il curriculum universitario a partire dagli appunti inediti dei corsi seguiti e annuncia prossima l’edizione critica della tesi; Adriana Mormina offre uno studio dal titolo “Contributo per una lettura concordanziale di Parole di Antonia Pozzi”; ecc.
Nei locali del Rettorato, contemporanea al Convegno si era anche tenuta una mostra fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta, che ha scansionato, catalogato e riordinato gli oltre 2.800 scatti di Antonia che ci rimangono (i negativi, purtroppo, sono andati perduti). Già un anno prima aveva curato una bellissima Antologia fotografica, pubblicata da Àncora. Nella sua relazione ha tratto da questo lavoro interessanti considerazioni storico-biografiche ed estetiche, con cui, il giorno seguente, è entrata in dialogo Chiara Cappelletto, che ha affrontato il tema da un punto di vista principalmente estetico.
Molto apprezzato lo spettacolo ideato e rappresentato – la sera del secondo giorno – dall’attrice Elsa Fonda. Un lungo, ininterrotto, commosso e commovente monologo, intessuto dei testi poetici, diaristici ed epistolari della poetessa. Almeno per chi ha una certa dimestichezza con l’opera pozziana, davvero convincente.
La chiusura del Convegno venne stata affidata a Luciana Tavernini, che entrò in dialogato con la regista Marina Spada, che stava ultimando un film su Antonia Pozzi e di cui è stata proiettata un’anticipazione di una dozzina di minuti. Il film, dal titolo Poesia che mi guardi, presentato al Festival di Venezia di quest’anno, suscitando un buon interesse.
Il consistente impegno delle coordinatrici del Convegno – Onorina Dino, Graziella Bernabò e Silvia Morgana, con il prezioso aiuto di Michela Beatrice Ferri – è stato premiato da un risultato di alta qualità, come potrà vedere chi ne legga gli Atti. E ha segnato un tappa probabilmente decisiva nella storia della critica di una poetessa davvero grande.
Marco Dalla Torre