È tardi, molto tardi stanotte. Solo due dei miei compagni di sventura sono svegli qui nella cella 43 del distaccamento 3, nella prigione provinciale di Canaleta a Ciego de Ávila dove sono rinchiuso per dissidenza politica al governo del Paese che amo e al quale sono incondizionatamente grato.
Stanotte per me è impossibile dormire senza scrivere queste righe che corrispondono perfettamente alla mia percezione della vita in relazione a Cuba e ai cubani. Quando parlo così tendo a ignorare le parole vuote o la solita retorica intollerante di quelli che si credono i padroni assoluti di una verità che non esiste né all’Avana né in Florida. Dissentire è un diritto, anche criticare, ma nessuna delle due azioni deve essere sinonimo di attacco. Non ho mai dubitato che i miei connazionali, che hanno preso parte alla diaspora, siano una parte fondamentale del popolo cubano, divisi da un sistema e da un pezzetto di mare che in futuro potrà sicuramente unirsi con un ponte che significhi qualcosa in più di più che un semplice attraversamento viario. Parlo di un’unione di culture simili e al tempo stesso differenti, che affonda le sue radici in problemi che fanno parte della vita di chi è in esilio o di chi vive sull’isola, ma in generale di tutti i cubani.
Considerando la buona volontà, che apprezzo, del cardinale e vescovo dell’Avana, Jaime Ortega Alamino, le sue parole a favore delle Damas de Blanco e dei prigionieri politici e dissidenti hanno provocato reazioni contrastanti, cosa che considero normale, viste le caratteristiche naturali dei cubani le cui diversità culturali si radicano nella personalità di ciascuno di noi. A questo punto non riesco a vedere quale reato compiano queste trenta donne, imparentate con il gruppo dei 75, che chiedono con tutto il diritto la rinuncia delle ugualmente coraggiose Damas de Apoyo nelle manifestazioni che si svolgono nelle strade della capitale cubana.
Spero che nessuno critichi l’agire di queste trenta donne che semplicemente discrepano dalle rappresentanti del più famoso gruppo che si veste di bianco e che lotta per la pace, che noi prigionieri politici e dissidenti cubani rispettiamo e ammiriamo. Nuotare in acque basse è facile come bere una coca cola ghiacciata in estate, sia a Varadero che a Miami Beach. Probabilmente i 90 mesi, quasi 2.700 giorni non hanno importanza per i valorosi difensori della libertà che parlano da dietro un microfono, in ogni emittente della Florida o dell’Avana. Sì, rispettiamo il lavoro, il dolore, la sofferenza delle nostre famiglie. E se non pensano la stessa cosa, non vuol dire che debbano per forza trasformarsi in nemiche. A questo si aggiunge la testimonianza, quasi aliena, dei prigionieri politici incarcerati.
Siamo arrivati a un punto di non ritorno per il futuro di questa nazione. Concedere un voto di fiducia a Jaime Ortega Alaimo, in nome della chiesa cattolica cubana, è un segno di intelligenza, di tolleranza e soprattutto significa la speranza per noi che portiamo la croce più grande, ma che lo facciamo con orgoglio e dignità.
Per essere obiettivo devo anche considerate un altro dato. Mai, negli ultimi 50 anni, il governo ha dato ascolto ai cattolici nel rendere pubblica la necessità di mettere in luce un conflitto interno nel quale il ruolo delle Damas de Blanco riveste grande importanza. Il risultato sono state le critiche delle comunità nazionali e internazionali, anche se noi cubani non riusciamo a liberarci di un’atavica paura.
Sono disposto al dialogo sia dentro che fuori del Paese, ma se questo significa odio, diffamazione e attacchi è meglio non perdere altro tempo e fare orecchie da mercante alle schifezze che ci hanno propinato negli ultimi cinquant’anni.
Pablo Pacheco Avila
(da Voce tra le sbarre, 09/06/2010 - “Con qué Derecho”)
Traduzione di Barbara La Torre
www.barbaralatorre.net