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Ines Busnarda, Ricordi di guerra di Aldo Tarabini
Le
Le 'scatole di sardine' alle grandi manovre del 1936 
30 Maggio 2006
 

Il sottotitolo che potrei dare a questa storia potrebbe essere:"Un racconto che inizia nel 1939 e termina nel 1946, di un Talamonese che ricorda la sua guerra d’Africa". Dopo aver letto su 'l Gazetin, con piacere ed interesse, “I diari del caporale Louis Barthas” di Renzo Fallati, ho piacere di inviare la testimonianza di un ex reduce talamonese, che ha vissuto per quasi sette anni (dal 1939 al 1946) "la sua guerra" in Africa. Il racconto mi è stato fatto a voce nel 1991 dal protagonista (ora deceduto), con la speranza che potessi farla leggere a qualcuno. Infatti mi è stata pubblicata dalla Rassegna economica della Camera di commercio della provincia di Sondrio. Ho riletto la testimonianza che avevo memorizzato su un floppy disk. È molto interessante e documentata, tanto da lasciar stupiti per la fedeltà e passione con cui è stata ricordata e raccontata, dopo tanti anni, dal protagonista.

Pensando possa essere di interesse ve la propongo per la pubblicazione, sebbene già apparsa sulla stampa.


Ines Busnarda

 


 

Molti ricordi dei combattenti della seconda guerra mondiale, in cinque decine di anni trascorsi dal suo inizio (scrivo nel 1991), sono stati dispersi in racconti spesso impietosamente inascoltati, o compassionevolmente uditi, o nel migliore dei casi, raccolti come frammenti da aggiungere al “museo” della grande storia. Un destino vicino all'indifferenza, che forse ha deluso i protagonisti e demolita la loro fiducia d'aver patito per un futuro migliore. Tant'è, che molti han dimenticato in una rimozione almeno apparente, quasi come se ricordi simili fossero offensivi ed alieni per una società del benessere, come l'attuale. Del benessere, non del bene in quanto rassicurante, non della pace. Poiché forse, per sfuggire la molestia di insegnamenti che avrebbero dovuto, e dovrebbero imporre scelte più doverose e meno egoistiche, si è preferito non ascoltare, non pensarci più.

Ecco perché mi è sembrato doveroso ascoltare il racconto di un ex combattente della guerra d'Africa, che quasi con passione, appellandosi ad una memoria che non ha potuto dimenticare, mi ha chiesto di portarlo all'attenzione di qualcuno che forse leggerà, dico “forse”, convinta che sia un privilegio farsi leggere nello sconfinato mercato moderno delle parole scritte. Il protagonista senza preoccuparsi di possibili smentite, poiché non racconta più di quanto rammenta, senza rimpianti o rossori, senza esibizionismi, né bisogno di alterare, riferisce gli avvenimenti come li ha vissuti e come gli sono apparsi.

 

Il narratore è Edoardo Tarabini (a Talamona meglio conosciuto col nome di Aldo) classe 1916. Al momento della sua narrazione, se non erro avvenuta nel 1991, aveva settantaquattro anni. È deceduto…

Il suo servizio militare è durato quasi sette anni, ma il suo racconto inizia dal 6 novembre 1939, quando fu richiamato a un anno dal congedo del servizio di leva e si conclude con il ritorno dalla prigionia nell'aprile del 1946.

 

Nel raccontare la storia della “sua guerra” si sofferma, com'è naturale, nei particolari che lo hanno toccato personalmente, o che lo hanno sensibilizzato maggiormente, ma anche che ritiene di interesse generale.

Il 20 luglio del 1940 fu mandato a Cuneo col grado di sergente di fanteria carrista, destinata al “Fronte occidentale”, in previsione di una nostra entrata in guerra contro la Francia. Nel frattempo compito del corpo era quello di prepararsi, con esercitazioni, all'uso dei carri armati L 3. Carri armati leggeri, di trenta quintali, funzionanti a benzina, della velocità di trenta chilometri orari e con l'avviamento a mano. Purtroppo, secondo il ricordo di Tarabini, avevano parecchi inconvenienti: una visuale scarsa, la ventola che invece di servire solo allo scarico dei gas, com'era stata destinata, aspirava molta polvere dall'esterno, i serbatoi che spesso perdevano. Ma il guaio più grosso era dato dai cingoli che “scingolavano” con molta facilità, procurando gli inconvenienti che qualunque fantasia può immaginare. Erano i carri armati sarcasticamente indicati come "scatole di sardine".

Risolta rapidamente la guerra sul fronte francese, senza che la fanteria carrista dovesse entrare in prima linea, fu mandato a Bracciano. Qui iniziò il suo addestramento sugli M 13, carri armati più pesanti, di centotrenta quintali, forniti di un cannone e tre mitraglie, con un equipaggio di quattro uomini: un capo-carro, un pilota, un mitragliere ed un aiutante. Il Battaglione del nostro narratore, destinato al fronte dell'Africa settentrionale, da Bracciano si porta a Napoli per essere imbarcato. Si è ai primi di dicembre 1940. Dopo una prolungata attesa, dovuta alla minaccia delle incursioni inglesi sul Mediterraneo, viene imbarcato sul Conte Rosso, uno dei nostri maggiori transatlantici, affondato poi nell'Egeo. Carri armati e tutto l'armamentario del Battaglione furono invece inviati in Libia sulla nave Esperia, scortata da caccia e torpedinieri ed altre unità navali. Ciò fece dedurre al sergente Tarabini che il carico di armamenti rivestisse un'importanza rilevante nella strategia del conflitto.

Il giorno 9 il Conte Rosso sbarcò i militari a Tripoli, e qui il battaglione rimase per parecchi giorni in attesa di mezzi di trasporto per uomini e carri armati. Probabilmente ai militari in partenza non venne comunicato che proprio in quei giorni la nostra decima armata, ferma in pieno deserto, forse anch'essa in attesa di mezzi, era stata travolta dagli Inglesi. E che a nulla avevano potuto i nostri carri armati, «vere e proprie scatole di latta» forniti solo di mitragliatrici, contro carri armati nemici dotati di cannoni da 37 mm. Situazione che aveva fatto dire al generale Graziani: «Questa è la lotta della pulce contro l'elefante».

Senza far commenti alla verità di questa metafora, può far pensare il fatto che il generale si era, come riferiscono alcuni storici, “imbucato” a Cirene in una vecchia tomba romana, trasformata in un rifugio antiaereo, da dove tempestava Roma di rimproveri e minacciava sue dimissioni.

Quando, riprendendo il nostro racconto, i mezzi di trasporto arrivarono, i militari fermi a Tripoli partirono alla volta di Tobruk. Ci fu una sosta a Tmini e verso la fine del viaggio o meglio, in vicinanza di Derna, in una salita molto ripida percorsa di notte, il carro guidato dal valtellinese Bianchini di Cedrasco, precipitò da un ponticello ed il carrista si fermò.

«Mentre mi trovavo in quella località – ricorda Tarabini mi capitò d'esser mandato di scorta ad una spedizione di grossi mezzi di trasporto che aveva l'incarico di recuperare gli aerei rimasti in un campo d'aviazione di Ain el Gazala, sgomberato dalla nostra aviazione militare. Ma riuscimmo a recuperare solo due aerei, perché fummo attaccati da due apparecchi inglesi, ai quali rispondemmo con le mitragliatrici. Prima di lasciare il campo demmo alle fiamme tutto quanto non avevamo potuto asportare».

Nel viaggio di ritorno alla base di Bomba, i membri della piccola spedizione, notando un sottomarino italiano arenato ed abbandonato a pochi metri dalla riva, presi da interesse sostarono e visitarono pure i rifugi della collinetta vicina, probabilmente usati anche dai marinai del sottomarino. In una delle numerose grotte, sfruttate come rifugi, il nostro protagonista trovò una tartaruga legata ad una cordicella. La prese e la ospitò sul suo carro armato fino al momento della resa. Solo la nostra sensibilità può comprendere il significato gratificante che simile fatto può avere nella storia di una guerra. Quasi certamente la tartaruga era stata, o di un nostro marinaio, o la mascotte dell'equipaggio, costretto dagli avvenimenti ad abbandonare il suo porta fortuna. Comunque la sua storia, grazie all'attenzione del nostro protagonista, poté continuare, probabilmente con uguale significato e destino, su un carro di fanteria carrista della divisione “Ariete”.

Contemporaneamente ai fatti raccontati, gli Inglesi, che avevano ricevuto rinforzi attaccano, e comincia la ritirata del nostro esercito. Cadono, l'una dietro l'altra, Bardia, Tobruk, Bomba e Derna. Da quella zona, ricorda Tarabini, il suo battaglione comincia la ritirata puntando su El Mechili. Il suo carro è sempre lasciato in coda ed egli pensa che sia per affidargli il recupero dei mezzi in avaria. Subito dietro i genieri minano la pista percorsa.

Ad El Mechili arrivano di sera, quando, già preceduti dal nemico, era appena cessato un combattimento di carro contro carro, che aveva lasciato sul campo molti morti e molti mezzi distrutti.

Il battaglione prosegue verso Agedabia dove arriva la sera del 6 febbraio 1941 con gli Inglesi alle calcagna per cui, dice Tarabini, dovettero «rifuggire un combattimento». Durante la notte, con un impegno assillante rifornirono i carri armati di tutte le munizioni possibili. All'alba del giorno 7 inizia un nuovo combattimento e il battaglione si accorge di trovarsi purtroppo in una sacca.

A questo punto per il narratore i ricordi si fanno incalzanti ed emozionanti. Si combatte disperatamente e mentre lui sta puntando il cannone verso un carro inglese, che gli offre la pancia con il muso sollevato, a motivo della conformazione del terreno, qualcuno gli batte sulla testa e gli grida: «Abbassa quella bocca da fuoco! Non hai sentito gridare la resa?»

Era un bersagliere, che ritroverà poi in prigionia, il quale allarmato che continuasse a sparare, era balzato sul carro. «Infatti», dice Tarabini, «tutto preso nella difesa, non mi ero accorto di quanto stava capitando intorno a me».

Dopo l'avviso abbassò fulmineamente a zero il cannone; i compagni issarono l’asciugamano bianco, che serviva per pulire la bocca da fuoco, sull’asta e per un momento lo sventolarono in alto. Ma i nemici, forse irritati dall'involontaria resistenza del motocarrista, continuarono ai sparargli contro. Intanto che gli aiutanti raccoglievano un po' di roba prima di scendere dal carro, e distruggevano gli strumenti ottici che avevano e un pezzo della culatta del cannone, il Tarabini, allarmato per il cannoneggiamento inglese di cui il suo carro era ancora fatto centro, decise di spostarlo sul lato sinistro del campo.

Eseguita la manovra il nostro ligio sergente si trovò di fronte lo Stato Maggiore italiano disposto per la resa. Davanti un grande lenzuolo bianco, teso e dietro alcuni ufficiali, a fianco dei quali il generale Babini. Questi “con un evidente scatto di rabbia” (pensa Tarabini), gettò lontano la sua rivoltella, dopo che, un alto ufficiale inglese scese dal suo carro leggero, gli si avvicinò e gli strinse la mano.

Mentre il nostro protagonista fissava, «quell'avvilente momento storico», un proiettile perforante penetrò la corazza del suo carro. L'equipaggio in quel frangente, egli rcorda, era composto, oltre che da lui, dal caporal maggiore Mazzolari di Brescia, dal caporale Volpe e dal soldato scelto Ricci, entrambi romani. In più vi era stato ospitato il sergente Scalvini, della Val Trompia, il quale aveva perso il suo carro nei combattimenti della notte precedente.

Il Tarabini avverte un caldo di sangue sul volto ed un bruciore alla pancia. Si china e vede che una scheggia gli aveva lacerato i muscoli e messo a nudo gli intestini. China il capo sulla culatta del cannone con la sensazione (è il suo racconto) di morire. Pensa alla famiglia e alle altre persone che ama e prova un gran dispiacere di non poterle più rivedere. È tutto: non soffre e sente una gran pace, poi la perdita completa della coscienza.

Si sveglia urtato da Scalvini che lo deve spostare (lo crede morto) per scendere dal carro. Esce lentamente dal torpore e vede come in un sogno Mazzolari, seduto al suo posto di guida con una grossa ferita alla nuca, che aveva assunto l'aspetto di un frutto di melograno tagliato a metà. Non sa come, ma riesce a muoversi e scendere anche lui dal suo mezzo. Appena a terra, non riuscendo a reggersi, si lascia cadere a fianco del carro e perde nuovamente i sensi. Quando riapre gli occhi, scosso da un urto, vede la baionetta, inastata di un soldato inglese, che lo tocca. Poi in un italiano ben comprensibile sente la sua sentenza: «Italia non vincere più guerra».

Due nostri ufficiali, ormai prigionieri, che lo conoscevano lo portano in un raggruppamento di feriti dove ci sono due medici italiani. Uno di essi, scioccato dagli avvenimenti non riesce a smettere di piangere, mentre l'altro, un genovese, rincuora il ferito e gli fa un'iniezione, poi gli dà alcune gocce di cognac, che dietro sua indicazione manda a prendere nel carro. A quel punto ha la conferma che il pilota del suo carro, il Mazzolari, era morto.

Dopo poco tempo i feriti vengono caricati su un carro e portati a Solucho, all'ospedale da campo italiano, già occupato dagli Inglesi. Durante il trasporto muore un altro dei suoi carristi, proprio in una barella vicina alla sua, ma che non poteva vedere data l'immobilità a cui lo costringeva la ferita. Ogni tanto il camion con il suo carico di feriti e morenti, si arena e deve essere spinto dai prigionieri che marciano dietro.

Uno di questi ad un certo punto si alza sulla punta dei piedi e guarda all'interno del camion e riconosce il Tarabini: era un valtellinese, un Mottarella di Regoledo di Cosio.

Dato il numero dei feriti, o forse per altri motivi, ricorda comprensivo Edoardo Tarabini, il medico inglese quella sera non poté occuparsi di lui e solo la mattina seguente gli suturò le ferite della pancia e medicò quelle del viso. In una barella vicina alla sua c'era un ufficiale della sua compagnia, il tenente Piccoli di Brescia che sapeva l'inglese e faceva da interprete.

Fu in seguito trasportato all'ospedale civile di Bengasi dove in un ambiente pulito, con personale medico italiano, fu curato molto bene e rimase fino a marzo. Ossia fino a quando l'offensiva di Rommel, dopo aver riconquistato le località perdute dai nostri, da Agedabia minacciò l'avanzata su Bengasi.

Il nostro protagonista non poteva sapere che parzialmente ed in ritardo, quanto stava avvenendo sul nostro fronte. Mussolini aveva dovuto far appello all'aiuto tedesco, che gli veniva concesso in condizioni umilianti, dopo ripetuti solleciti. (Infatti dopo un colloquio avuto con Hitler, che gli aveva promesso l'invio di una divisione leggera in Africa, il Duce aveva confessato che «non gli era bastato il sangue nelle vene per arrossire»). Minacciati da Rommel anche a Bengasi, gli Inglesi trasportano in auto-ambulanza i prigionieri feriti, prima a Barce, poi in un ospedale da campo vicino a Tobruk, nella cui piazzaforte erano stati circondati dalle truppe tedesche ed italiane che avevano riconquistato la Cirenaica.

In quell'ospedale il Tarabini trova un Boldini Silvio di Sondrio, al quale era stata amputata una gamba.

Dall'ospedale i prigionieri sentono gli spari dei nostri che si avvicinano e sperano d'essere liberati. Intanto però, per salvarsi dai bombardamenti, sono costretti a vivere in infinite piccole caverne che si aprono in una vicina collina, assediati da una prolifica comunità di pulci.

Si è ai primi d'aprile. Si cominciano a portar via i prigionieri su navi: ne partono due. Una esce dal porto, ma la seconda incappa in una mina e il nostro protagonista vede portare in ospedale i feriti superstiti della nave affondata.

Una notte avverte che una nave ospedaliera è pronta per portar via anche lui ed i suoi compagni e decide, con altri due prigionieri, fra cui uno di Berbenno, di nascondersi per attendere l'arrivo dei nostri. Scopre presto che molti altri hanno preso la stessa decisione. Sopravvivono con i viveri lasciati nelle tende dell'ospedale, che però presto finiscono, mentre per l'acqua sono a zero. Perciò quando un giorno tornano alcuni prigionieri italiani, portativi dagli Inglesi per prendere tutto quanto avevano lasciato nell’ospedale, decidono di andare con loro.

Trasferiti nel porto di Tobruk, vedono la nave inglese partita alcuni giorni prima con i prigionieri, danneggiata dai bombardamenti. Nell'attesa di partire assistono allo scatenarsi del fuoco dell'aviazione tedesca sulla città e al precipitare in mare dei mezzi incendiati.

Una visione spettacolare che ai prigionieri dà la magra illusione della vittoria dei nostri. Eppure la paura ed il pericolo dovevano essere grandi se, come ricorda il narratore, molti si rifugiavano nelle fogne.

I prigionieri, quando fu possibile, partirono stipati nelle stive della nave. In coperta vi erano solo le sentinelle e pochi prigionieri, che probabilmente si erano pagati quel privilegio con un anello od una catenina d'oro. Erano diretti ad Alessandria d'Egitto e fu un viaggio tormentato da paure che il Tarabini dice di non aver mai provato fin allora, forse la paura del topo che si sente murato. Aerei tedeschi, da ricognizione, avvistarono la nave prima di Bardia e la seguirono incessantemente e ciò che quelli chiusi nelle stive non potevano vedere e sentire direttamente, lo intuivano dalle voci e dalle reazioni di quanti erano in coperta. Lo sgomento e la paura prendeva tutti e il nostro protagonista dice che, pur essendo un cattolico praticante, in vita sua non ha mai più sentito pregare con tanto fervore e fede come in quella stiva. Era, racconta, un insistente recitar di rosari, specialmente da parte dei prigionieri meridionali. Sebbene i piloti della nave facessero miracoli di destreggiamenti, non poterono evitare reiterati bersagliamenti, nonostante la costante esposizione di bandiera bianca.

Quasi per miracolo ci fu solo un morto in coperta, un prigioniero italiano che fu sepolto in mare con gli onori militari, con il rispetto con cui gli Inglesi erano soliti comportarsi con i prigionieri che decedevano.

Il convoglio raggiunse Alessandria, ma per qualche ora dovette ormeggiare al largo, non potendo entrare nel porto sorvolato dai bombardieri italiani. Dopo una permanenza di pochi giorni in quella città, i nostri prigionieri furono trasferiti a Suez dove rimasero alcuni mesi, con meno pericoli, e trattati bene. Qui, ogni sera di luna la nostra aviazione bombardava il porto che gli Inglesi proteggevano con un ombrello di grossi palloni frenati, che venivano ritirati, (quelli rimasti), ogni mattina.

Poi da Suez all'India, dove il protagonista fu internato in un campo di concentramento presso una città in quei tempi chiamata Dehradum. Il campo, molto bello, ricorda il narratore, era ai limiti di una foresta. Aveva capannoni ben costrutti, con una finestra accanto ad ogni branda, che era protetta da zanzariera. Il suo numero di prigionia era il 166181. Era stato destinato nell'ala quarta del campo n. 24.

La conta dei prigionieri veniva fatta due volte al giorno e nei corridoi erano sempre presenti le sentinelle. Le pulizie grosse del campo erano riservate ad inservienti indiani che venivano dall'esterno. I prigionieri italiani costruirono un altare nel cortile del campo, dove il prigioniero padre Bonomelli di Brescia celebrava la messa. Organizzarono squadre di tennis e di calcio e formarono un'orchestrina con strumenti in parte acquistati ed in parte costruiti da loro, come ad esempio un violino.

Ai primi del '43 Eduardo (Aldo) Tarabini, su domanda, fu trasferito al campo ufficiali, con l'incarico della manutenzione del campo. Qui trova il capitano Rapicavoli, il tenente Orecchio e Bertola Alberto di Sondrio, Franco ed Ulisse Zecca di Cosio ed un Ferrari di Tirano. In questo campo rimane fino all'8 settembre, dopo di che, fatta domanda d'uscire a lavorare come idraulico, viene spostato in un'ala del campo, comandata dal capitano Rapicavoli, dove erano raccolti i volontari per il lavoro esterno. Il capitano Rapicavoli, ricorda il Tarabini, con il suo carattere brillante rendeva allegra la vita nel campo. Qui conobbe uno Scamoni Angelo di Mello.

Fra i tanti, il nostro protagonista fu scelto a far parte del battaglione di tecnici navali destinati a lavorare nei cantieri navali di Bombay. Una situazione che concedeva un trattamento quasi migliore di quello destinato agli stessi militari inglesi.

Quando in seguito un distaccamento di un centinaio di operai specializzati per riparare automezzi, fu trasferito in altra località, vi fu mandato anche lui con il compito di approvvigionare la mensa poiché sapeva un po' d'inglese. L'aveva studiato in precedenza nel campo di concentramento, dove c'era appunto un'apposita scuola gratuita e facoltativa. Per gli approvvigionamenti aveva possibilità di entrare in zone vietate agli stessi Inglesi, dove commerciava, con buoni vantaggi, sia per la qualità della merce, sia per il prezzo. Ciò grazie ad uno speciale tesserino ottenuto da un ufficiale della polizia inglese, reduce dall'Italia, che innamorato della cucina italiana ed in modo particolare degli spaghetti, praticava la mensa del loro campo.

Quando, ricorda Tarabini, nel '45 scoppiò il grande incendio del porto di Bombay, i prigionieri italiani ed in modo particolare gli autieri, furono i più generosi nel prodigarsi ed i più tenaci nel lavoro di sgombro delle macerie e questo vuol dirlo poiché la stampa del tempo non lo mise in risalto. Come pure vuol ricordare «la buona educazione dei prigionieri italiani», che viaggiando sui mezzi pubblici, se vedevano una persona vecchia, o una donna incinta fra i passeggeri indiani, si alzavano per cedere loro il posto. Questo comportamento suscitava sorpresa ed ammirazione fra gli Indiani che commentavano: «Vedi come son buoni gli Italiani». Inoltre vuol ricordare che a Bombay conobbe una Sceresini di Colda (Sondrio), che ritornando in nave dall'Australia dove aveva dei parenti, era stata fatta prigioniera dagli Inglesi, e che sposò un italiano incontrato nel campo dei prigionieri civili.

Rammenta ancora che nel suo campo di prigionia c'erano anche alcuni marinai che avevano fatto parte della spedizione che, con mezzi d'assalto detti “maiali”, nel porto di Alessandria avevano silurato la corazzata britannica “Valiant”. (I “maiali”, o siluri a lenta corsa, erano piccoli sommergibili con un'autonomia di poche miglia e una velocità ridotta, con motori elettrici per cui erano silenziosi. Potevano scendere alla profondità di 25 metri ed erano portati da un sommergibile in vicinanza dell'obiettivo da silurare. A quel punto venivano pilotati da un equipaggio di due uomini, seduti a cavalcioni, che staccavano poi la “testa” dei “maiali”, contenente esplosivo e la facevano aderire alla chiglia della nave nemica. L'esplosione era provocata da un meccanismo a tempo).

 

Alcuni appunti dei racconti dei reduci, come questo ad esempio, potrebbero invitarci a rivedere molti particolari della storia, che non si possono pretendere dai manuali fatti per uno studio scolastico. Di una storia in parte non scritta e forse sommersa da molti voluti oblii, ma che andrebbe conosciuta e tramandata perché, come scrive padre David Maria Turoldo in La Resistenza nella letteratura, «Sotto i piedi teniamo i morti e perfino ai loro teneri figli impediamo la memoria e la speranza, e non lasciamo a nessuno la libertà di vivere... Nulla abbiamo imparato dai nostri errori: tutti impazziti, mio Dio? Eppure alla polvere di tutte le strade è frammista la loro cenere ed il suolo di ogni nazione è fermentato dalla loro morte. Che la moltitudine degli uccisi non decida un giorno di vendicarsi. Signore, abbi pietà dell'Europa».


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