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Dario de Giacomo. Lo Sciacallo
11 Giugno 2010
 

I

 

Nuvole basse, sporche, cariche, a volo radente, premono sullo sterno come sonno agitato.

Non so svegliarmi, annaspando dentro di me in cerca d’aria.

La luce nuvolosa ferisce la vista, mi stanca. Tengo gli occhi serrati e le tapparelle abbassate ma non riesco a svegliarmi. La memoria esala l’immagine del cubo grigiastro dove vivo con un uomo che non conosco e cammino su mattonelle a scacchiera: untuosa distesa di bianco e nero.

Annuso la paura rancida dell’uomo nel suo sudore; a volte si avvicina a me. So che mi spia, lo sento quando mi raschia il viso con la sua guancia rasata male. Le sue mani febbricitanti cercano la mia intimità; calde e ossute, ma è uno strano calore, lo odio!, la febbre che le consuma è malattia.

Da quanto cerco di sfuggirgli? Di notte ascolto il suo rantolo, poi si sveglia, mi mostra le sue ferite, le esibisce. Credo che provi piacere per lo schifo che suscitano in me, le mostra apposta.

Desidero il sole, l’abbraccio di un essere umano vivo, con i piedi immersi nell’acqua di mare; qui, invece, il fiato si ghiaccia e disegno stelle, pezzi di cielo, sul vetro della cucina. Grido ti amo, da sola, e sono ebbra di freddo.

Mi tocco tra le cosce per sentire il calore di un essere umano che mi desideri. Forse sono solo stanca per il vino, il vino rosso che macchia la tovaglia di lino ruvido con gli stessi ricordi stinti di ogni volta: nel buio mi racconto favole. Racconti come macchie scure che colorano le mie risate scialbe di disagio: siamo sempre in troppi a questo tavolo, con l’imbarazzo di ritrovarci stranieri tra stoviglie straniere. Abbiamo imparato dai nostri padri a stare a tavola, se non al mondo, e i nostri figli impareranno da noi. Troppi morti e troppo sangue attorno a questo tavolo. Sto impazzendo.

Parlo da sola.

 

 

II

 

Lo sciacallo è venuto a trovarmi stanotte. Io lo chiamo così quell’uomo. Rovista la mia carogna fino all’osso, c’è poco ma quel poco che ho lui vuole disossarlo. Si sono già presi tutto anche il mio lucido egoismo. Mi scavano dentro senza trovare nulla, allora si incazzano, mi montano con rabbia per lacerarmi, per punirmi di ogni secondo sciatto che hanno vissuto.

Ho lasciato solo le mie tracce di sangue per la strada, loro mi hanno lasciato dei segni profondi sulla pelle, io glieli lascio leccare perché a loro piace. Non mi piace piacergli, non mi piace più nulla in realtà, sono solo un fantoccio di paglia che chiunque può bruciare: non ho niente, nemmeno più il dolore di non sentire dolore. Per assopire la noia monto mobili dell’ikea, sono belli come la mia vita, e poi li sfondo con ogni mio movimento ubriaco: belli ma fragili.

Com’è stretta questa camera! Non c’è colore.

Sono sempre decisa ad andare via da qui. Però rimango. Di notte decido, quando la paura mi artiglia la gola, il terrore di quel silenzio cattivo mi strappa le corde vocali, ma al mattino rimango, non per stanchezza, solo perché l’alba albeggia livida come sotto tutti i cieli del mondo. Qui o altrove, è lo stesso. Ora sento il puzzo dello sciacallo dietro di me, sono costretta a rimanere chiusa qui dentro, prigioniera della sua paura. È l’unica cosa che riesca ancora a farmi bagnare tra le cosce la sua paura. Quando scivola, silenziosamente in agguato, dietro di me e mi preme con la sua virilità impotente.

Mi ama e mi scopa. Si afferra saldamente ai miei fianchi e mi ama, dice lui, mi ama col suo cazzo in culo e un dito scarno in bocca. È così che amano gli uomini, alle spalle.

Se lo guardassi, lo brucerei dentro. Talmente marcio dentro, lui, che si disgrega ad ogni mio rantolo, ma mi ama, sì mi ama davvero lo stronzo: il pianto diventa la mia sfida, lo trattengo dentro la gola insieme allo sperma, finalmente talmente umiliata da diventare grandiosa.

Sei una troia – mi urla – e rido oscenamente e mostro il mio sesso.

Lui ha scoperto tra le mie gambe i segni rossi che il bracciolo di lucida pelle nera del divano ha disegnato durante le ore immobili dei miei piaceri solitari.

Mi spia, livido, geloso, invidioso dei miei pensieri quando mi scopo da sola. A chi stavi pensando?, troia! - urla con l’ultimo fiato di birra in gola.

Io non voglio. Non voglio che muoia ora! Voglio che continui a fottermi dentro, che mi faccia male.

Non sento dolore, e mi bagno della sua rabbia, mi bagno quando i suoi pensieri deragliano e muoiono. Voglio uccidergli tutti i pensieri. Scassami il culo stronzo - lo incito - si fallo pure, io ti ammazzerò tutti i pensieri.

 

 

III

 

Vivo in questo enorme cubo grigiastro che puzza di chiuso, lui arriva, parte, io resto al centro dei miei pensieri, con l’urgenza nel cuore e la fretta che si spegne ad ogni passo.

Ho accumulato milioni di scatole di scarpe, diverse, grandi, piccole, sfondate.

Indosso uno stivale d’argento oppure giro scalza per sentirmi nuda. Forse sarei capace di correre se indossassi entrambe le scarpe. Quando non hai dove correre e indossi solo una scarpa, cammini zoppa, e io vivo da sempre zoppa. Lo sciacallo lo sa! Apre tutte le porte della casa, all’improvviso, mi ritrovo da sola con tutte le porte spalancate sugli ambienti scuri, a volte illuminati da una luce giallastra che mi sgomenta. Odio il rumore secco delle porte che sbattono, agitate da mani invisibili, ho sempre paura di trovare qualcuno appiattito là dietro. Nella luce giallastra c’è una vecchia curva sullo scopettone, raschia i pavimenti, le guardo le unghie sporche orlate di nero, ingiallite dal fumo. Una strana presenza cattiva. Lo sciacallo sa tutto, scassina abilmente i miei pensieri e continua ad aprire le porte, all’improvviso.

 

 

IV

 

Io sono Silvia, la figlia bastarda di una sveltina in tangenziale. Mia madre era una donnetta minuta, schiacciata nell’ombra di un uomo enorme.

A mia madre piaceva il cazzo, credo che in tutta la vita sia stato il suo unico interesse.

A mio padre forse piaceva mia madre.

Comunque, durante un temporale, lui se la scopò sulla piazzola di sosta di una tangenziale, senza nemmeno slacciarsi i jeans. Una piazzola sospesa altissima sopra il vuoto di un viadotto perennemente battuto dal vento. Forse è per questo che odio le altezze. Divento vertiginosa, poi vomito e cado se mi sporgo e guardo giù. La provo anche quando sculetto su tacchi altissimi questa sensazione, cerco perennemente un equilibrio instabile, però ho bisogno di staccarmi dalla terra, di stare un po’ più su.

Se solo potessi starmene in disparte, sarei felice. Felice di stare solo accanto alle cose, di non provare i brividi quando urto un corpo. Camminare accanto alle cose, è la giusta distanza per guardare e non cadere. Invece quando mi sollevo troppo e guardo in giù, una potente forza di gravità sensuale mi attira a terra, sotto terra.

Sotto la terra dura, che nessun pianto può dissodare trovo una madre maligna e inetta, schiacciata sotto un libro enorme.

Lei non sa leggere nel mio cuore, lei non sa leggere affatto. È solo una piccola donna malefica che continua a prendersi il mondo tutto dentro di lei: è l’unica maniera che ha per capire, rendersi capiente. Lei mi ha insegnato a muovermi al ritmo dello sciacallo, lei mi ha portato da lui, lei che mi ha covato dentro di sé senza amore.

Da piccola mi ha chiuso con lo sciacallo dentro una stanza buia e il suo corpo era enorme, grande, il suo cazzo grosso mi faceva male, e lei mi guardava mentre gridavo, mi sorrideva fumando una sigaretta dietro l’altra.

Ora però lo sciacallo è diventato magro ed ossuto. Potrei imparare a dimenticare, ma solo accanto alle cose posso dimenticarle. Solo accanto. Sono sola, lui se n’è andato, come sempre, andato via un’altra volta per tutti gli sciacalli della sua specie. Ha rantolato ed è andato via senza farmi a pezzi. Forse ci proverà di nuovo. Scopro il suo regalo sotto il ripiano della cucina dove l’ho sentito dentro di me. Una pistola lucida, tremenda, argentata. Una canna lunga da accarezzare come un giocattolo. Quando sei sola usala per difenderti – mi ha detto aggiustandosi la cinta sui pantaloni troppo larghi.

Ho imparato presto a difendermi da sola, troppo piccola in un mondo troppo grande. Come si impara presto a non sputare il seme, perché a loro non piace, così si impara anche a difendersi con un finto sorriso sulle labbra, un sorriso stupido, oppure con un calcio in bocca per sentire il suo sangue.

Già! Com’è vero e saggio tutto questo. Ma io non so da chi difendermi. Non lo so più. Potrei provare a sparami dritto giù in gola, forse sospesa dal viadotto, la lunga canna metallica tutta in bocca: il mio ultimo, lunghissimo, estenuante pompino al sapore di sangue. Sarebbe meraviglioso sentire in bocca finalmente qualcosa di vivo che mi ama, che ama solo me. 

 

Dario de Giacomo


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