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Paolo Ruffilli. Un’altra vita
31 Maggio 2010
 

Paolo Ruffilli

Un’altra vita

Fazi, 2010,pagg. 204, € 18,50

 

 

Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde”

(Baricco, Castelli di rabbia)


Un’altra vita mette a fuoco la “camera oscura” dimenticata in noi e apre il varco verso un’autenticità che d’improvviso si rivela urgente, disarmante e irreversibile. Coscienza ed emersione del passato connotano nell’amore senza condizioni, il significato necessario dell’esistere. Le capacità dell’intelletto, spesso in equilibrio apparente, possono trasformarsi in giogo e vanificare la vita privandola della commozione di “essere chiamata per nome”. Momenti, incontri, anima, parole, congiungimenti, devozione, passione, differimento del sé, «E lei ogni volta spingeva anche di più contro di lui, per incontrare la sua bocca sul viso e sulla gola, e per sentire le sue labbra che tremavano ad ogni singola parola che non smetteva di masticare intanto tra i denti sopra di lei», si arrendono senza riserva in gioia e dolore ma nella sperata “coincidenza degli opposti”. I racconti tutti, procedono per incantamento, senza dannazione né salvezza, senza colpa o merito e «quella che era stata appena una scintilla diventava ad un tratto l’intuizione. Come accadeva ai mistici, di intravedere un attimo nell’interezza il cuore del mistero, avendo l’occasione di sfiorarlo con la mano».

I racconti, in forma di poesia, con rime interne alla prosa, anacoluti, anafore, allitterazioni, onomatopee colgono il flusso della coscienza, passato e presente si sovrappongono e l’amore complesso e inadatto alla sceneggiatura d’intreccio, fissa l’ipotesi di “un’altra vita” che, appena accennata, è lasciata nel suo possibile svolgersi alla fantasia del lettore. All’autore sta a cuore il diario che ogni protagonista avvia dentro sé, in un alternarsi continuo di dialogo e corpo con l’altro “or intrecciati or disgiunti”, la messa a fuoco del prima, l’inizio di una nuova intuizione verso una vita che senza amore conoscerebbe solo “l’alito freddo della morte”. Li lascia andare, l’autore, i suoi personaggi con struggimento dopo averli creati, li accompagna fino all’ultima riga, si accomiata e resta da lontano partecipe della loro libertà “altra” riprendendo il bandolo de Le stanze del cielo.

Quanto, nelle precedenti opere di Ruffilli, appariva coscienza della sconfitta e ipotizzava un riscatto nella morte sia dell’uomo che della parola poetica in una deriva che definiva il proprio non-ritorno, nei racconti invece, strappa al cielo e stelle e luci e dolori e quiete e riconoscimento e affidamento per illuminare la vita in un momento imprevisto ma possibile e “gravido” con un’intensa partitura musicale e poetica che vibra spaesamento e vibrante commozione.

«...è che non amo/ gli squarci di natura/se non da fuori/ del palcoscenico/ da un giusto osservatorio/ almeno per il poco/ che si possa/ presidiato./» scriveva in Diario di Normandia nel mentre offriva al lettore cieli, ghirigori di nuvole e figurazioni insuperabili del cielo.

Nel suo ultimo lavoro un’apertura diversa, più cosciente e libera, meno difensiva e più affidata anche se non meno solitaria, alita una comunione nuova con il paesaggio; il vento e il sole e le stagioni segnano nel loro alternarsi abbracci e abbandoni, ritrovamenti e scintille, sostegno e contrapposizioni. Ricordare i numerosi studi di Ruffilli su Leopardi, illumina quale risalto anche il nostro offra al paesaggio spesso in netto contrasto con il sentimento e la condizione dell’uomo. Niente in Ruffilli è casuale; sulla scia della tradizione letteraria più alta l’autore sottolinea la solitudine senza conforto del protagonista del momento, l’irrinunciabile analisi di sé, l’interiorizzazione dell’oscuramento della anima, ma va oltre e, diversamente dal poeta recanatese, suggerisce l’ipotesi di una “rimessa in gioco” e di un’altra vita. «Era il dolore che, mentre cresceva un’altra volta la primavera intorno, tutto apparisse in lei sterile e freddo… a quei colori squillanti della vita, corrispondeva il grigio del suo stato». Vibra nel testo anche una liricità d’amplesso con la natura e «i suoi singulti trovavano la giusta rispondenza con gli scoppi che la tempesta sollevava là di fuori. Identità sonora di un processo che cominciava a sciogliere i due uragani».

Colgo un altro scarto dall’andamento della prosa; se estrapolati dallo incontro, gli squarci del mondo vivono di luce propria e sottolineano come la poesia sia ancora una volta “l’elettrocardiagramma” delle note con le quali Paolo Ruffilli scandisce dal profondo, la partitura che decifra e orchestra il senso della vita, dove amante vuol sempre dire “colui che ama”, «c’è qualcosa di sacro nella carne» e le stagioni che suddividono l’opera non seguono l’impostazione del calendario bensì una mappatura del cuore. Estate e primavera sembrano stringere di calore i periodi più freddi e riverberarli della luce o accentuarne la loro nel biancore della neve e nelle ombre sempre più lunghe della sera.

«nel suo disordine apparente, il pulviscolo restituiva in modo più emotivo il disegno alla realtà che si muoveva, cambiando stato, luce e ora. E la sua vita andava avanti, dopo aver sbandato come frenando sulla neve o sopra il ghiaccio»

«il vento percuoteva i vetri come se avesse freddo e pretendesse di entrare in casa… e s’infilava dentro con un sospiro di sollievo per aver trovato il varco… la massa che franava… che sfarinava in aria era quella accumulata sui balconi e sui tetti della casa… rami… tremolìo»

La frequenza della “erre” arrota la parola, la ripete e trasfigura vento e neve in una tempesta di presentimenti , suggestioni e fisicità altissime.

Poesia nell’amore, poesia come costruzione di sé dopo lunghi attraversamenti.

Forse per questo la primavera chiude il testo?

Nel chiuso dell’officina poetica l’artigiano lavora aspettando il dì di festa e le pagine dedicate ad Emily Dickinson colloquiano con un amore immaginato e non per questo meno forte e con una verità che, denudata necessita di “un vestitello nuovo”. Il fermo-immagine della copertina di Vettriano stempera la solitudine senza soluzione sia del Leopardi che di Pirandello e la dolorosità di Hopper sfuma nelle tonalità sacrali del misticismo dei corpi.


Te ne sarai

accorta che

più spingo

per entrare

più ti fai aperta

e, nell’aprirti

come fossi la mia porta,

di scivolare in me

nel punto stesso

del mio starti

dentro.

E nell’averti in me

è il ritrovarmi

intero

al centro

senza che

mi costi,

nella coincidenza

degli opposti

 

(poesia inedita di Paolo Ruffilli, 2008)

 

Patrizia Garofalo


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