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L’omaggio alla Valtellina di Stefan Zweig
26 Maggio 2006
 

Cosmopolita e pacifista, lo scrittore austriaco Stefan Zweig, nato a Vienna nel 1881, nonostante il suo enorme successo di pubblico, non riuscì a sopportare il crollo della vecchia Europa caduta in preda alla barbarie nazista. Nel 1934, ancor prima dell’annessione dell’Austria al Reich di Hitler, Zweig, di famiglia ebraica, abbandonò per sempre l’Austria e la sua bella villa di Salisburgo, dove aveva risieduto con la prima moglie a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, ed esiliò in Inghilterra, da dove, nel 1938, si trasferì prima negli Stati Uniti e poi a Petropolis, una località termale non lontana da Rio de Janeiro. Qui, a sessant’anni, il 22 febbraio 1942, mentre a Rio furoreggiava il carnevale, Zweig si tolse la vita insieme alla seconda moglie con una sovradose di tranquillanti, “troppo impaziente” per attendere quell’alba nuova che si augurava potesse sorgere dopo le infamie di cui era stato testimone e vittima negli ultimi anni.

Nel corso della sua vita, Zweig, curioso e inquieto, viaggiò moltissimo, anche perché non ebbe mai preoccupazioni economiche di sorta. Rampollo di abbienti industriali tessili, visse la giovinezza da vero figlio di papà e per di più, quando dopo la laurea in filosofia, ottenuta senza grande convinzione, scelse la professione del libero scrittore, fu subito baciato dalla fortuna, tanto che negli anni trenta del Novecento era uno degli autori più letti e più tradotti al mondo. Il suo bisogno di uscire dall’ambiente ovattato che lo circondava a Vienna fu assai precoce e forse condizionato dalla particolare famiglia da cui proveniva, con parenti disseminati per ogni dove. Sua madre, per esempio, figlia di un benestante banchiere ebreo, era nata per caso in Italia, ad Ancona, dove aveva vissuto fino all’età di 19 anni. Anche per questo Zweig fu legato per tutta la vita da un affetto speciale al nostro paese. Certo, la cultura francese influenzò in maniera ancor più diretta ed evidente la sua produzione letteraria; ma anche l’Italia rappresentò per lui fin da giovanissimo un punto di riferimento, un paese straniero che però non gli fu mai del tutto estraneo. Nella sua autobiografia, intitolata Il mondo di ieri, Zweig dice addirittura di essersi sempre sentito “a casa” nella terra che aveva dato i natali a sua madre.

Anche in Italia Zweig si costruì una cerchia di amici fra gli intellettuali: frequentò Giuseppe Antonio Borghese, a lungo redattore al Corriere della Sera e professore di Estetica e Letteratura Tedesca all’Università, nonché, dopo l’emigrazione in America, genero di Thomas Mann; ebbe un vivace scambio epistolare con Sibilla Aleramo, di cui molto apprezzò il romanzo Una donna; tradusse in tedesco l’ultimo copione compiuto di Luigi Pirandello Non si sa come; ebbe contatti diversi con Arturo Toscanini, condividendone la posizione antifascista.

Lo scrittore si costruì ovviamente nel corso degli anni questo giro di conoscenze, al quale arrivò anche favorito dalla sua notorietà internazionale e che tuttavia coltivò con grande generosità. Ma in Italia Zweig venne con regolarità fin da ragazzo. Il suo primo viaggio nel nostro paese risale al 1903, quando era ancora studente universitario e stava scrivendo la tesi. Di questo suo soggiorno italiano si sa ben poco; ne rende testimonianza soltanto una lettera all’amico Hermann Hesse, al qual quale Zweig confidò: «Mi sento proprio a pezzi dal gran sgobbare [...] - spero però di riuscire a convincere i miei a lasciarmi andare in Italia per 10 giorni». Il desiderio che lo animava era di vedere i quadri di Leonardo di cui conosceva soltanto riproduzioni, anche se Hesse, dal canto suo, gli aveva consigliato di evitare Milano, una città terribile, piena di fracasso e di gente poco affidabile.

Notizie più precise si hanno invece del viaggio in Italia che Zweig compì due anni dopo, nell’estate del 1905; ed è questo quello che ci interessa in particolare, perché fu il viaggio che, attraverso Landeck e Trafori, portò Zweig in Alta Valtellina. Da una lettera alla pedagoga svedese Ellen Key si sa che a metà d’agosto di quell’anno egli si trattenne per qualche giorno a Tirano e poi rientrò in Svizzera attraverso il Bernina. Zweig descrisse invece dettagliamente il suo passaggio dall’Austria in Italia in un articolo pubblicato sul Berliner Tageblatt e intitolato “La strada del passo dello Stelvio”, un pezzo dove trapelano sia la fierezza nazionale, sia i pregiudizi dell’allora ventiquattrenne futuro scrittore:

«Pochi passi e si arriva alla casa cantoniera di confine, e i primi mendicanti, con la loro presenza, ricordano al viandante che si è davvero già in Italia. E i tornanti della strada - “che ci hanno costruito gli Austriaci”, come di qui dicono gli Italiani trionfanti - procedono a valle in stupende serpentine».

Poi però, la crescente bellezza del paesaggio annulla questo attacco d’orgoglio patriottico venato di una punta di arrogante senso di superiorità:

«E d’improvviso - è un evento nella vita di una persona - mentre la strada, pur ancor sempre a un’altitudine di mille metri, continua con le sue curve, risplende incontro al viandante la valle di Bormio, di un verde intenso già maculato dal chiarore dei cereali, una veduta tanto placida, mite e stupenda, che non la si dimentica più; tutte le dolcezze d’Italia incastonate dentro una catena di alte montagne innevate. Molto, molto lentamente, con passo titubante si entra in quella valle, che si trova non più in basso di Trafoi. Ma qui risplendono le rose nel giardino dell’albergo, alberi scuri abbracciano teneri le rocce. E a quel punto la strada non appare più temeraria e impervia come in Tirolo: morbida e tenera essa vuole ora allettare il viandante a entrare in Valtellina, dove rilucono i grossi grappoli scuri dell’uva e il meraviglioso vino d’Italia scintilla nel sole come sangue caldo».

Davvero un elogio senza riserve, nei toni un po’ ridondanti e tendenti al ditirambo che caratterizzeranno anche in seguito la prosa di Zweig. Lo scrittore tornò spesso in Lombardia, alla quale dedicò molte belle pagine; questo suo breve resoconto giornalistico restò invece il suo unico elogio alla Valtellina.

 

Gabriella Rovagnati


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