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Yoani Sánchez. Cronaca di un arresto arbitrario
15 Maggio 2010
 

Il 24 Febbraio alle 15:20 uscii di casa con mia sorella Yunia Sánchez Cordero per andare in via Neptuno 963 tra Aramburu e Hospital. Lì, nella casa di Laura Pollán - membro delle Dame in Bianco - c’era il libro delle condoglianze per la morte di Orlando Zapata Tamayo. Camminammo a piedi, con la paura costante di essere seguite in qualsiasi momento. Il clima di tensione generato dalla morte di questo abitante di Holguin di 42 anni, ci faceva pensare che avremmo potuto incontrare ostacoli per strada fino alla casa di Centro Avana.

Circa trecento metri prima di arrivare a casa della signora Pollán, decisi di accendere un cellulare affinché registrasse quello che succedeva in caso di pericolo. L’esperienza dolorosa vissuta da me e altri blogger il 6 novembre 2009, quando fummo vittime di un sequestro illegale da parte dei membri della Sicurezza di Stato, ci fa temere che atti del genere possano capitare in qualsiasi momento. Quello che allora ci impedì di denunciare questo atto di violenza poliziesca fu il silenzio seguente dei testimoni. Potemmo contare solo sulla testimonianza degli accusati: Orlando Luis Pardo Lazo, Claudia Cadelo e la sottoscritta. Da quel momento, la paura di trovarmi un’altra volta in una situazione di impossibilità giudiziaria, mi fa portare sempre dietro un registratore e una fotocamera per poter riprodurre una testimonianza visiva o audio dell’accaduto. Il 24 febbraio scorso, la vita mi ha dato ragione e ha confermato le mie preoccupazioni.

Mentre eravamo davanti al portone numero 1004 di via Neptuno, fummo avvicinati da un gruppo di persone vestite normalmente che fingevano di bere rum. Questi uomini e donne si avvicinarono a noi chiedendoci i documenti d’identità. Replicai con forza che non avrei mostrato il mio documento senza prima sapere chi fossero e misi in dubbio che avessero l’autorità legale per chiedere una cosa simile, ma loro fecero scivolare velocemente un portafogli davanti ai miei occhi. Nella parte plastificata vidi a malapena una “E” blu, senza riuscire a capire chi fosse l’uomo che mostrava il documento né per quale istituzione lavorasse. Mentre chiedevo che mi mostrassero di nuovo i loro documenti, fummo accerchiate da circa sette persone. Due donne vestite in borghese mi immobilizzarono le braccia, mentre io insistevo che non mi toccassero. Chiesi che chiamassero la polizia in uniforme e con distintivo, perché non riconoscevo di quale corpo facessero parte quelle persone, che oltretutto mi stavano maltrattando e spingendo. Gridai che stavano commettendo un reato di coercizione, impedendomi di fare qualcosa che la legge non penalizzava. La risposta fu l’aumento delle loro violenze.

Riuscii a liberare una mano per prendere il cellulare e cercare aiuto, mentre continuavo a gridare affinché chiamassero un poliziotto in uniforme. Un vortice di violenza mi colpì bruscamente. Uomini e donne cominciarono a spingermi e a tirarmi i capelli. Una brunetta di circa venticinque anni e dal viso orientale mi graffiava con le sue unghie affilate. Io cercavo di difendermi e facevo il possibile per liberarmi da quel gruppo. La strada era piena di persone, dai balconi la gente guardava l’accaduto inorridita. Dopo seppi che questi uomini avevano raccontato che io e mia sorella eravamo delle ladre che stavano cercando di rubare in una casa.

Sentendo lo stridere di pneumatici mi resi conto che stava arrivando un furgoncino, uno di quelli con il vano adibito a cella. Scesero dalla vettura alcuni poliziotti in uniforme senza distintivo. Si unirono agli altri aggressori, senza neanche spiegarmi il motivo della mia aggressione o detenzione. Io gridavo: “Lasciatemi!” ma questo non faceva altro che far aumentare la loro rabbia contro di me. Ricordo un poliziotto brizzolato, particolarmente cattivo, che mi trattenne per i polsi lanciandomi contro le scale dell’auto-cella. Caddi faccia a terra, e mentre sentivo che mi trattenevano e mi colpivano, una delle donne vestite in borghese si lanciò contro di me. Mia sorella era già stata spinta con la forza dentro il furgone. Alla fine riuscirono a rinchiudermi in uno spazio largo due metri per uno. Seduti sopra una panca metallica c’erano un uomo che mi guardava in maniera minacciosa - non aveva la divisa - e una donna giovane che aveva partecipato poco prima al mio attacco e che era anche lei in borghese.

Tutto era dipinto di un grigio che metteva paura, isolato se non per due piccole griglie che lasciavano vedere la parte anteriore - dove si trovavano tre uomini - e la parte posteriore che era occupata da due poliziotti in uniforme.

Fu un viaggio breve nel quale pretesi che venissero riconosciuti i miei diritti riuscendo così a far arrabbiare l’omone che si trovava nella parte anteriore del furgone. Mi gridò di stare zitta e che la smettessi di rompere. Un poliziotto che si trovava dietro mi disse invece che loro rappresentavano la Rivoluzione. Il furgone-cella si fermò, mi resi conto che eravamo arrivati a destinazione. Aprirono il portellone e prima presero mia sorella. Lei gridò che non mi lasciassero da sola lì dentro, così il poliziotto brizzolato mi prese da un braccio e mi scaraventò in mezzo alla stazione di polizia Infanta y Amenidad. Mi resi conto che ci trovavamo in quella particolare stazione perché da terra vedevo le finestre del palazzo che si trova all’angolo di Infanta y Manglar, quello che chiamano “Fama e applauso” perché ci vivono solo persone che compaiono in tv o scrivono nei giornali. Continuarono a prendermi a calci mentre io sbraitavo a più non posso e chiedevo perché mi trovassi lì. Portarono mia sorella dentro la stazione, mentre sei persone mi prendevano per braccia e gambe e mi trasportavano come se fossi un animale prima di essere sacrificato. Il nostro arrivo in quella stazione non fu notificato, non ci registrarono mai. Entrammo infatti dalla parte posteriore della stazione. Un paio di autisti che si trovavano lì insieme ad alcuni cuochi, si guardavano lo show violento che nel frattempo avveniva nel cortile. Nessuno intervenne, nessuno chiese di smettere di colpirmi.

Portavo una gonna, quindi la mia intimità fu violata da chi mi colpiva e gli stessi non si preoccuparono minimamente del fatto che fossi trasportata mostrando la biancheria intima. Mi spinsero in un corridoio stretto con due celle ai lati. Mentre mi trovato lì stesa continuavano a darmi calci nei reni. Sentii allora una voce che gridava. Era Ricardo Santiago, che mi riconobbe e cominciò a gridare che non mi picchiassero. Furono dei momenti drammatici, alla voce di Ricardo si unì quella di Eugenio Leal, rinchiuso nella cella degli uomini. Gli aggressori si portarono via il cellulare che - per loro sfortuna - continuò a registrare le loro voci per alcuni minuti. Arrivò a quel punto un uomo sui quaranta, vestito in borghese, che mi ordinò di alzarmi per poter aprire la cella e spingermi dentro. Pretesi di sapere chi fosse per darmi ordini, oltre a chiedergli perché i poliziotti non avessero i distintivi. “La polizia non li usa più” fu la sua risposta, cosa che mi lasciò ancora più inorridita davanti alle falsità e alle bugie che mi circondavano. Non solo il mio arresto e quello di mia sorella era illegale, ma neanche la reclusione obbligatoria nella stazione di polizia di Infanta y Amenidad seguiva i criteri imposti dal codice penale. Ero in mano a gente che non seguiva la legge. Poteva succedermi di tutto. Dissi che sarei entrata nella cella, ma aggiunsi che loro stavano commettendo qualcosa di illegale e che era un vero e proprio sequestro. Lì dentro ci aspettava una prigione buia che puzzava di urina.

Nella cella di fronte alla nostra si trovavano alcuni amici e conoscenti che erano stati incarcerati per lo stesso motivo. Erano stati intercettati all’entrata o all’uscita della casa di Laura Pollán. Tutti eravamo vittime di azioni illegali che violavano i nostri diritti. Io e mia sorella dividevamo la cella con una donna che era stata incarcerata per traffico clandestino di alcol. I minuti passavano e le mie nocche mostravano i segni di ferite fatte nel momento in cui avevo afferrato lo sportello del furgone-cella per non farmi sequestrare.

Erano già passate le cinque di sera quando un uomo in borghese dalla voce pacata venne a dirci che eravamo libere di andare a casa. Io gli risposi che non era così facile rapire un cittadino, maltrattarlo, segregarlo illegalmente e poi dirgli che poteva andarsene a casa. Pretesi che fosse certificato che eravamo state detenute, se no l’avrei considerato come un rapimento. Dissi che se mi avessero liberata sarei andata nuovamente nel posto del libro delle condoglianze, dove mi stavo dirigendo prima di essere sequestrata. Lui ci pensò un attimo, poi ci disse di aspettare, questa volta nello stretto corridoio dove più di un’ora prima ero stata scaraventata con violenza. Evidentemente l’uomo, che aveva tutto l’aspetto di un funzionario della sicurezza di Stato, si consultò con il suo superiore per sapere cosa fare in merito al nostro rilascio.

Tornò venti minuti dopo e mi condusse - con una gentilezza simile a quella che già avevo ricevuto in precedenza - in un ufficio al piano superiore della stazione di polizia.

 

Il tetto che cadeva a pezzi, un telefono tenuto insieme con nastro adesivo e due uomini vestiti in borghese fu quello che trovai entrando in quell’ufficio. L’uomo che portava una camicia a quadri arancioni e che era strabico da un occhio chiese di mia sorella. “È rimasta giù, nessuno le ha detto di salire”, gli risposi, e lui allora andò a cercarla. L’altro mi indicò una sedia e mi disse di sedermi. Le mie nocche sanguinavano e l’uomo alla mia sinistra le controllava con lo sguardo. “Qual è il tuo nome, Yordani o Yoanis?” Chiese. “Questo trucco del non conoscere il nome dell’interrogato è vecchio. Mi chiami come le piace di più, il mio secondo nome è Maria. Mi chiami Maria”. Ricordò allora miracolosamente come mi chiamavo e cominciò a parlare. Riassumendo, le sue parole dicevano che c’era stato un “errore di procedura”, a queste io aggiunsi che con un altro errore di procedura simile alla fine mi avrebbero uccisa.

Sulla sedia riposava il telefono fuori posto. Qualcuno - sicuramente - ascoltava dall’altro capo.

 

Si identificò con il nome di Samper, capo della sezione 21, quella che “si occupa” dei giornalisti dissidenti indipendenti, blogger e gente che non seguiva il regime in generale. Aveva all’incirca 52 anni, capelli brizzolati tendenti al bianco, aspetto curato e occhi chiari. Gli dissi che vedendolo, avevo scartato l’ipotesi che fosse uno dei partecipanti al rapimento del 6 Novembre. Quando feci la descrizione a uno degli uomini che violentemente mi avevano portato dentro il Geely nero, molti mi dissero che la descrizione coincideva con quella di Samper. A quel punto ebbi la conferma che ancora stavo cercando, non avevo ancora individuato uno dei colpevoli del primo rapimento, ma almeno il responsabile di questo secondo sequestro era di fronte a me. Dissi chiaro che li avrei denunciati a tutte le istituzioni possibili e lui pronunciò una frase con una forte carica teatrale: “Sono qui per porgere le mie scuse”. “Non le accetto. Se c’è stato un errore di procedura allora dovete lasciare liberi i miei amici che continuano a essere rinchiusi al piano di sotto”. Cambiò conversazione e rimarcò il fatto che era dispiaciuto per avermi conosciuta in un’occasione come questa. Si offrì di portarmi in macchina fino a destinazione. La mia zona lombare a quel punto gridò di no, che da novembre scorso vivo con il terrore di questi veicoli dove si viaggia con la testa abbassata. Ironizzai dicendo: “Posso andare a piedi. Queste gambe – mi toccai i polpacci – le ho per andare in giro per la mia città”.

 

La conversazione obbligata finì, mi restituirono la mia carta d’identità e ci liberarono entrambe. Come due capre ostinate ci dirigemmo nuovamente al monte, alla casa dove ci avevano impedito di andare e dove ci aspettava un libro di condoglianze. Quando ci restituirono le nostre cose, ci assicurammo che non si fossero accorti che tutto era stato registrato dal cellulare. Ascoltammo la traccia audio, addolorate dal grado di violenza e illegalità che trasmetteva, ma soddisfatte di averli colti in flagrante per una violazione del genere.

 

Questa settimana consegnerò una copia della registrazione, accompagnata da una denuncia al Ministero militare della Repubblica. Farò in modo che arrivi anche agli organismi internazionali che si occupano di diritti umani, protezione dei giornalisti e di tutti quelli che subiscono maltrattamenti o violazioni. Alcuni avvocati mi aiutano in questa causa. Pur avendo poche possibilità che qualcuno venga processato, per lo meno i responsabili sapranno che le loro atrocità non vengono nascoste dal silenzio delle vittime e dall’omertà imposta ai testimoni. La tecnologia ha permesso che tutto questo possa uscire alla luce.

 

Yoani Sánchez

Traduzione di Barbara La Torre

http://barbara71282.wordpress.com


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