Non so a quale copione si ispiri il “racconto” del dibattito interno alla maggioranza. Ma è sempre più da teatro dell'assurdo. Se all'interno del partito di maggioranza le posizioni riflettono un pluralismo non solo auspicabile, ma fisiologico (di qualunque tema si tratti: dalla bioetica all'immigrazione, dalle politiche fiscali alle riforme costituzionali) chi è “fuori-linea” rispetto all'impostazione prevalente è indiziato di ostruzionismo o sabotaggio. Se invece un ministro, dopo averci pensato per qualche mesetto, attacca ad alzo zero un disegno di legge presentato da un altro ministro e approvato all'unanimità dal Consiglio dei ministri, al dissenziente non viene rimproverata né la contraddizione logica né la slealtà. Purché il dissenziente sia leghista.
La recente polemica sul ddl “svuota-carceri” del ministro degli Interni Maroni contro il provvedimento voluto dal ministro della Giustizia Alfano deve comunque rientrare nello schema di questa narrazione. I leghisti rimangono “alleati fedeli” e quelli che vogliono bilanciare il peso della Lega potenziali “traditori”.
Alfano si è posto una questione di civiltà giuridica e di buon governo, quella delle condizioni di detenzione sostanzialmente “illegali” in cui versa la gran parte delle carceri italiane, costrette ad ospitare un numero dei detenuti di più di un terzo superiore a quello previsto (quasi settantamila contro circa quarantaquattromila). Di fronte a una vulgata, che presenta l'invivibilità del carcere come una sorta di pena accessoria a carico dei detenuti, il ministro della Giustizia ha spiegato che il “disagio” peggiora e rende intollerabili anche le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria e pregiudica la funzione rieducativa che la nostra Costituzione assegna alla detenzione, esponendo il nostro paese alle ricorrenti censure della Corte europea dei diritti dell'uomo.
Dunque, accanto ad un intervento straordinario di edilizia penitenziaria, Angelino Alfano ha previsto una misura emergenziale - non la prima e certo non l'ultima visto il ritardo con cui si sono messi in cantiere interventi più strutturali. In particolare, il disegno di legge del governo prevede l'esecuzione domiciliare delle pene detentive fino ad un anno (anche residue di una pena maggiore) ed esclude dal beneficio i condannati per i reati più gravi, i delinquenti abituali e i soggetti a cui sia già stata revocata la detenzione domiciliare. Non si tratta di un “indulto mascherato”, come sostiene Roberto Maroni, perché non estingue la pena e neppure ne sospende la esecuzione. E non è un provvedimento che “rimette in strada” i detenuti visto che, per ciascuno di essi, andrà indicata l'abitazione o il luogo pubblico e privato di cura e di assistenza in cui sarà scontato il periodo di detenzione domiciliare.
Nel settembre del 2009, al trentadue per cento dei detenuti condannati con sentenza definitiva mancava un anno al fine-pena. E, anche volendo ragionare in termini economici, il costo pro-capite - diretto e indiretto - della loro sorveglianza a domicilio è di gran lunga inferiore a quello della loro detenzione. La Lega Nord - non a caso alleata, in questo, dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro - non pensa a come risolvere, ma a come usare un problema che fa comprensibilmente breccia nelle paure dell'opinione pubblica, a cui ben pochi spiegano che il tasso di recidiva dei detenuti beneficiati da misure alternative è comunque inferiore a quello di chi sconta in carcere anche fino all'ultimo giorno di pena. Con questo atteggiamento il Carroccio punta, come spesso accade, a scaricare la responsabilità di misure tanto ragionevoli quanto impopolari sul Popolo della libertà, ricavando per sé il ruolo di chi difende demagogicamente “l'ordine” e la “legge” anche contro l'esecutivo di cui fa parte. La solita Lega “di lotta e di governo”. Questo gioco non deve stupire e non può essere demonizzato: deve essere però contrastato e non passivamente subito, arginato sul piano dell'azione e non del ripiegamento. Il provvedimento proposto dal ministro Alfano, insomma, può essere modificato, ma per essere reso più coerente con i suoi presupposti, non per consentire alla Lega di staccare un dividendo di immagine.
In tutto questo, peraltro è evidente la contraddizione con la fermezza con cui si vuole arginare la competizione all'interno del Popolo della libertà, che, una volta accettata e incanalata su binari da tutti condivisi, non indebolirebbe ma rafforzerebbe Silvio Berlusconi e il suo governo di centrodestra.
Benedetto Della Vedova
(dal Secolo d'Italia, 7 maggio 2010)