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Ernesto Morales. La morte che mai dovrebbe essere 
Questi “rapitori di verità” non concepiscono un cubano di 42 anni che paralizzi il suo stomaco per reclamare rispetto...
03 Maggio 2010
 

Le ultime immagini sfumarono su un piano aereo, visione di un’isola che si affacciava al Malecón avanero, e io sentivo che in quel momento il mio stato d’animo era cambiato radicalmente. Il Notiziario nazionale della Televisione di lunedì primo Marzo, ci è riuscito con violenza. Fino a dieci minuti prima io vivevo la mia vita e pensavo ai miei morti. Ma dopo aver visto la disperazione negli occhi di Reina Luisa Tamayo, un’anziana dalla pelle scura e dalle parole semplici che adesso mentre sto scrivendo, sono sicuro, piange ancora le lacrime che una madre non dovrebbe mai piangere – la morte del figlio – e io non sono riuscito a essere più lo stesso di un attimo prima.

Se qualcosa devo ringraziare alle telecamere nascoste che senza vergogna, violando qualsiasi precetto etico, hanno registrato questa donna durante un controllo medico, mostrando la sua ingenua speranza in quegli uomini dal camice bianco ai quali implorava di salvare suo figlio, è esattamente questo: avermi mostrato il suo volto. Conoscere i suoi tratti affinché potessi confermare quello che già supponevo: questa povera donna non può, non potrà mai capire, la morte di suo figlio Orlando Zapata Tamayo, il prigioniero con una coscienza che nella mia Cuba dolorosa smise di respirare lo scorso 23 Febbraio, dopo 86 giorni di sciopero della fame. Al massimo, Reina Luisa conoscerà il dolore, e da adesso forse, l’odio. Ma mai capirà l’ideologia o la politica.

E non potrà capire perché ha dovuto coprire con la terra il corpo malconcio di suo figlio perché neanche io, né nessuno di noi esseri civili che tanto siamo orgogliosi della nostra specie, potremmo capire la morte di un cubano di 42 anni che agonizzò fra lamenti, lacerando il suo corpo a causa della fame, per denunciare con un coraggio epico, e perché no, un poco ortodosso, quello che nel suo essere semplice considerava come diritti inalienabili. In generale, quello che chiameremmo, un carcere giusto.

Questa morte dà le vertigini. Sciocca. Questa morte che non doveva avvenire fa male a tutti noi che crediamo nel lato buono dell’essere umano, che non risiede nelle sue convinzioni ideologiche ma nei suoi sentimenti.

E mi porta a fare domande, inevitabilmente, su questa isola in cui molti vivono con orgoglio, altri come se fosse un peso, e altri ancora con la certezza che l’isola sia di sua proprietà. Penso alla barbarie civile, e in nome di cause che si suppongono giuste, a un Governo che può provocare la cosa peggiore a quelli su cui governa: disumanizzarli.

Qualcuno mi disse poco tempo fa: Abbiamo un paese malato. E io dico: Sì, malato di pigrizia, di rancori, di sentimenti degradanti. Non può essere sano un paese dove la televisione nazionale mostra nel suo notiziario principale un materiale così ignobile, dove dopo averlo visto milioni e milioni di occhi, averlo analizzato milioni di cervelli, non nascano manifestazioni di protesta e neanche movimenti volti a far nascere delle domande sull’accaduto. Che chiedano delle reali spiegazioni per quello che non è stato detto, per quello che è stato nascosto volutamente.

Penso: l’autrice di questo materiale, la giornalista che ha prestato la sua intelligenza per così tanta infamia, vive nel nostro Paese, sicuramente ha una famiglia, magari dei figli. Questa giornalista è tristemente malata di bugie.

È stato uno sbaglio reiterato, tutte le volte che è stato trasmesso in vari spazi d’informazione, che non apparisse il suo nome e cognome? O lei stessa ha deciso, per una prudenza nata all’ultimo minuto, di nascondere la sua identità dietro il paravento di una voce fuoricampo? Molti l’hanno riconosciuta, riconobbero il suo famoso nome di giornalista televisiva, ma lei, con sospetto, ha preferito nasconderlo. Mi domando come può dormire in pace qualcuno che dovrebbe avere la verità come religione, l’oggettività come santo e simbolo, invece di manipolare in questa maniera un caso che a tutti ci dovrebbe provocare, per lo meno, un’ondata di vergogna.

Orlando Zapata Tamayo fu imprigionato durante la tristemente nota Primavera Nera. Non risultava tra i nomi famosi dei 75 giornalisti indipendenti condannati perché invece di essere un giornalista, un intellettuale o un pensatore, era un umile muratore, che attuò radicalmente il suo lavoro di opposizione, e la cui condanna iniziale a 3 anni di carcere provocò una sua denuncia pubblica contro quelle ondate di incarcerazioni del 2003.

Tuttavia, una volta dietro le sbarre, questa condanna aumentò alla cifra astronomica di 25 anni, per oltraggio a pubblico ufficiale, terminologia che nella sostanza significava che si era negato a indossare l’uniforme carceraria e a essere trattato come un prigioniero comune. Da allora, questo ex operaio, nato a Banes, nel municipio di Holguín, risultò essere uno dei recalcitranti “controrivoluzionari”, che non voleva essere trattato come un criminale comune, e opponeva il suo carattere di ferro a chi pretendeva di obbligarlo con la forza.

Questa è stata la genesi della tragedia. In maniera più corretta, il suo primo atto. Il secondo e decisivo venne inaugurato nel mese di dicembre del 2009, quando Orlando Zapata dichiarò ufficialmente il suo sciopero della fame.

Che cosa voleva dimostrare questo prigioniero con il suo digiuno volontario? Il servizio alla Televisione Cubana disse, in maniera fredda e dispregiativa: «Una televisione, una cucina e un telefono, questo è quello che c’è nella sua cella». Secondo le parole di sua madre «avere le stesse condizioni di vita che ebbe Fidel Castro quando fu prigioniero politico di Fulgencio Batista. Le stesse condizioni di vita che hanno i cinque cubani incarcerati negli Stati Uniti».

Forse Orlando Zapata non pensò che la sua azione lo avrebbe portato faccia a faccia con la morte. Ma quello di cui sono sicuro, è che le autorità di Kilo 8 (la prigione di Camagüey dove si trovava recluso) mai potevano immaginare che sarebbe rimasto fermamente stabile nella sua scelta. Anche se questo gli avrebbe estirpato la vita.

Una notizia che non spiega le cause non può chiamarsi giornalismo. Le informazioni mostrate alla nostra televisione si dedicavano a “smontare” il problema che Zapata Tamayo non fu visitato dai medici, quando il suo stato fisico lo richiese. Niente di più. Mai si spiegò ai milioni di telespettatori come è stato possibile che l’arroganza del regime carcerario permettesse il progressivo indebolimento di un uomo giovane che non chiedeva l’impossibile.

La domanda non è: “Cosa hanno fatto i medici di Camagüey per cercare di restituire la vita a un corpo prosciugato dalla fame?”. Questo lo immaginiamo: un medico che abbia nel cuore il sacro dovere di salvare vita, non può avere fatto altra cosa se non lottare senza sosta contro una morte che già aveva vinto la sua battaglia. La domanda è: “Com’è possibile non aver ascoltato in maniera tanto vile le denunce di un prigioniero il cui unico reato è stato quello di pensare in maniera differente, affinché nel momento di ingresso in ospedale, la sua condizione tanto precaria provocasse un impegno sterile per salvarlo?”. Forse Orlando Zapata Tamayo ha scelto un lento e orribile suicidio? Forse non amava la sua vita? Fu un irresponsabile, come tanto vuole convincerci la Televisione Cubana, che non misurò le conseguenze delle sue azioni, che non provò il dolore del suo corpo affamato?

Non voglio accettarlo. Orlando Zapata, un cubano che non conobbi mai, di cui disconosco le idee, i principi o i valori umani, la cui condotta non posso neanche valutare oggettivamente a causa della disinformazione e manipolazione a cui, per quanto riguarda questi temi, ci condanna la stampa ufficiale del mio Paese, ebbe il coraggio, che in cubano si traduce con “ebbe le palle”, di essere coerente con le sue idee. Seppe fare quello che tanti slogan consumati, tante frasi della Tribuna non potrebbero racchiudere nella retorica: dare la vita per la propria causa.

Il servizio televisivo deve imprimersi nelle nostre menti. Quando dentro di chi sa quanto si deve fare per costruire un Paese migliore, esempi come questo ci insegneranno fino a dove si è arrivati. Fino a dove? Fino a mostrare filmati nascosti di questa donna disperata, che apprezzava qualsiasi parola di sollievo che le potesse restituire il figlio in vita, e le cui parole (o quello che volevano essere) sarebbero state messe al vento senza nessun rispetto per la sua integrità, i suoi diritti o il suo dolore. Mostrare, una volta ancora, conversazioni telefoniche private, registrate in un geloso progetto di spionaggio troppo simile a quello che tanto criticò la stampa cubana a opera di George W. Bush, con la differenza che almeno, i servizi segreti del disastroso ex presidente, nascondevano questo tipo di registrazioni. Non le pubblicavano in orario di punta alla televisione statunitense.

Si può cadere più in basso? Si può. Dietro la foto di Orlando Zapata che ha mostrato la televisione, un’immagine imbronciata e un’espressione cattiva, scelta appositamente per essere mostrata al pubblico cubano, l’autrice dell’articolo contrappose una di queste innumerevoli marce che tanto bene conosciamo noi cubani. Milioni di avaneri che strisciavano vicino al Malecón e nel linguaggio visivo di questo servizio televisivo contestavano energicamente Orlando Zapata. Gli contestavano, secondo le testuali parole di quell’eterea voce fuoricampo, con i pugni in aria, i ricatti e le provocazioni.

Non una sola opinione contraria. Né una discettazione che andasse nel senso opposto. Né una testimonianza delle condizioni di vita che ebbe questo prigioniero di coscienza, che lo portarono alla sua protesta fatale. Vuol dire: Orlando Zapata non fu un “piantato” che negò di accettare di essere un criminale comune e rivendicò i suoi diritti. No. Orlando Zapata fu una vittima di chi inculcò in lui queste idee di ribellione, queste larve di controrivoluzione che lo spinsero alla morte. Semplicemente.

Per questi rapitori di verità il principio di disaccordo con le proprie idee è un concetto così vago, così inesistente, che solo in questo modo possono capire che un cubano di 42 anni paralizzi il suo stomaco per reclamare di essere trattato con rispetto. Solo così: come un’irresponsabilità. Come un’ingenuità di cui il vero nemico può approfittare.

Ancora, come direbbe Eduardo Galeano: Cuba fa male.

Fa male a chi accetta che cose come queste siano possibili, che morti come queste si materializzino, che sofferenze come queste abbiano luogo vicino a noi. Fa male a chi crede che invece di seppellire persone con idee differenti, è il momento di dissotterrare le proprie idee e unirle per costruire con tutte le altre, le veritiere e le assurde, le argute e le palesi, una nazione pluralista e tollerante.

E dovrebbe far male a chiunque pensi a Martí, imprigionato a sedici anni, vittima di abusi e crudeltà a causa della sua opposizione politica. Dovrebbe far male a chiunque pensi a Mandela, incarcerato per ventotto lunghissimi anni per combattere un sistema razzista semplicemente con le proprie idee. Sì, per essere un oppositore. Dovrebbe provarlo sulla pelle qualsiasi cubano degno, perché un altro dei nostri, di quelli che nacquero sotto lo stesso sole, di quelli che costruirono le proprie case con le nude mani, di quelli che patirono le povertà e risero a crepapelle, di quelli che bevvero rum almeno una volta, forse, e sognarono un paese diverso da quello che ci imponevano, è morto di una morte che mai dovrebbe essere.

Se la nostra bandiera non costasse divisioni in questa Cuba tropicale e, di conseguenza, se ognuno di noi potesse alzarla in qualche angolo della propria casa, alzarla a mezz’asta (anche se non è un politico o un personaggio famoso) sarebbe un giusto modo di mantenere un silenzio decoroso di fronte alla morte di quest’uomo sconosciuto. Sarebbe un modo per conservare la nostra ultima ricchezza: la dignità umana.

E contro questo, nessun disgraziato servizio televisivo potrebbe far nulla.

 

Ernesto Morales

Giornalista cubano, residente a Bayamo

ernestomorales25@gmail.com

Traduzione di Barbara La Torre

http://barbara71282.wordpress.com


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