Una finta stessa mano-stesso piede, la partenza incrociata, la palla batte a terra verso destra – la sinistra del difensore, irrimediabilmente sbilanciato – arriva l'aiuto difensivo, gli occhi dell'attaccante verso il compagno più vicino, si protende il braccio al passaggio definitivo, lo spazio si chiude, l'arancia all'ultimo istante cambia senso e traiettoria con una magia del polso, quasi un viaggio in una dimensione parallela, piccola stella nel bruciante fuoco di ogni playground. Facile l'appoggio del ricevitore alla tabella, un po' più piccola rispetto a quella delle grandi arene di un tempo su cui ruggiva e rimbalzava l’urlo ammirato della folla, vetro al di là del quale vivono sprazzi di campi che rinverdiranno e di grigie case, nel campo aperto sotto il cielo azzurropastello.
Già una piccola folla si è radunata ai bordi del campo, le cui linee scompaiono fra screpolature d'asfalto e formiche miracolosamente incolumi, terribilmente affaccendate come uomini nella metropoli. La palla è di chi segna. Finta d'entrata, finta di tiro, il difensore in aria, i piedi pencolanti nel vuoto pernicioso che annulla ogni opposizione al canestro, arriva ancora un aiuto difensivo, finta di passaggio dietro la schiena, l'aiuto si muove alla volta dell'immaginario percorso della sfera a spicchi sognando un illusorio recupero, la palla ricompare oltre per il tiro effettuato al tabellone.
Chi segna tiene palla, è la legge dei campetti. Il difensore concede terreno, stanco d'essere umiliato da finte ed entrate al pensiero-fulmicotone. Il jump si carica, mortale obice di grazia, le dita si arcuano in alto poi si piegano verso il suolo, la parabola e il suo spin, quasi in slow motion, la palla contro il sole, la palla è l’astro che muore ogni giorno d'ogni vita per rinascere, implacabile e consolatorio disco senza tempo. Ora la palla scende più veloce, inesorabile favola di pelle sbucciata da troppo dribbling, nella rete-fantasma di ferro sotto l’anello, e... l'uomo si accascia con essa, accartocciato come un eroe omerico all’ultima battaglia, un dardo d’invisibile, divino e crudele, dolore nel cuore. I due punti della vittoria: l'ultima.
La piccola folla si è fatta grande, le grida si mescolano con i fischi dell’ennesima, dovuta, ammirazione e stupore. Tutti conoscono l'alto e magro Pete. «È ancora un campione... nessuno come lui... se volesse...». L'agiografia delle chiacchiere di ogni campetto di ogni parte del mondo a spicchi. La sagoma a terra disegna piccole ombre di silenzio intorno a sé, nell'aria irreale. Il respiro posto in quell'estremo tiro, l'ultimo cerchio di un Giotto ingenuo e geniale, gli schemi della vita e del sogno confusi con quelli del gioco. Per sempre. Così muore chi è benvoluto dai numi, nell'avventura più amata: dolce maledizione?
Peter Press Maravich, detto Pistol, nato il 22 giugno 1947, morto il 5 gennaio 1988, tradito dal cuore matto, altezza 195 cm, College Louisiana State, dieci stagioni nella NBA, fra Atlanta (l’ardente come Rossella), New Orleans (mardi gras di azioni carnevalesche, vampiresche e vietate ai comuni mortali), Utah (a scaldare inusitate e dimenticate fantasie musicali) e Boston (prima dell’altra Dinastia). Mai un titolo per uno dei più straordinari attaccanti e giocolieri del parquet, colui che in una stagione universitaria aveva tenuto la strabiliante, o, meglio, fantascientifica media punti di oltre quarantaquattro a partita, tuttora il più grande realizzatore all time del basket universitario; colui che verso la fine degli anni Settanta era da molti considerato il più forte giocatore individuale di tutti i tempi, inventore di esercizi specifici per migliorare la qualità del palleggio (sembra che Mike D'Antoni, il fantastico Arsenio dell’Olimpia, ne detenesse il segreto essendosi forgiato su quelle memorabili sequenze. Del resto si favoleggia sulle sue mitiche esibizioni durante le ruote di riscaldamento pre-partita). Eppure un giocatore non egoista, dotatissimo per il passaggio, creatore di meravigliosi assist per i fortunati compagni. Pete valeva comunque il prezzo del biglietto, una vera enciclopedia di movimenti e di tecnica pura e sopraffina.
658 partite giocate nella NBA, 82% dalla lunetta, 3.563 assist, più palle recuperate che perse (classico memento d'intelligenza cestistica), 15.498 punti alla media di 24.2 punti a partita, 4 partite Tutte-Stelle a 10.8 punti di media, nel primo quintetto NBA nelle stagioni 1975-76 e 1976-77, miglior realizzatore NBA nella stagione 1976-77.
Riposa in pace, sulle nuvole che gravitano e girano sui cieli del basket, giovane vecchio Pete, l'eco del tuo palleggio ci sfiori sempre l'anima.
Alberto Figliolia