Qualche mese fa, l'insegnante di mia figlia mi invitò a parlare alla classe di ciò che faccio per vivere. In che modo avrei detto, ad una stanza piena di pimpanti alunni di prima elementare, che sto lanciando una campagna globale per contrastare la violenza contro donne e bambine, usando l'hip-hop e il calcio? Che sono passato da reporter di guerra ad attivista per i diritti umani? La mia stessa figlia aveva solo una vaga idea del mio lavoro, ed il pensiero di affrontare la sua intera classe mi spaventava.
Mentre salivo le scale per arrivare all'aula di mia figlia, potevo udire il caos a stento controllato che filtrava dalla porta. L'ho aperta velocemente, e ho attraversato la stanza. Una volta che le risatine, le dita puntate, le gomitate sotto i banchi si sono acquietate sotto lo sguardo-laser dell'insegnante, mi sono schiarito la gola e mi sono messo davanti alla classe, appoggiando la schiena alla lavagna.
Mia figlia era all'incirca nel mezzo dei banchi, seria e tesa in avanti, incapace di controllare la tensione. Ho respirato profondamente. Tutto quel che dovevo fare era parlare ai bambini come avrei parlato a qualsiasi altro gruppo di persone, e sperare che capissero. Ho detto alla classe di mia figlia la verità: ho parlato loro dei viaggi intorno al mondo in cui ho incontrato bambini che gli assomigliano molto, ma che sono impegnati nel combattersi e ferirsi l'un l'altro, o che sono trattati molto male dagli adulti che li circondano, in special modo le bambine.
Ho detto loro che non mi piacevano le storie che venivo a conoscere mentre scrivevo articoli e libri, e che sto tentando di farmi aiutare da altre persone a dare a quelle storie un fine più lieto. Ho raccontato che dall'estate del 2008 vado avanti e indietro per il pianeta per costruire un nuovo sforzo teso a porre fine alla violenza contro donne e bambine, e che quello sforzo ha preso la forma di una campagna globale chiamata “Man Up”.
Mentre parlavo, vedevo mia figlia appoggiarsi all'indietro, sorridere. Ma non ho potuto dire alla sua classe di tutta la sofferenza che ho testimoniato in posti come l'Afghanistan, la Colombia e la Repubblica democratica del Congo. Ho tenuto fra le mie braccia persone che stavano morendo, sono stato seduto assieme a donne che gli stupri subiti hanno reso paralitiche.
Neppure sono riuscito a dire delle mie difficoltà personali, forse perché a stento le comprendo io stesso. Al di fuori della mia vita professionale, di proposito evito di parlare del lavoro che faccio, perché la gente si aspetta che io sia l'incarnazione del “bravo ragazzo”. Di solito sono svelto nel citare mia madre, la mia ex moglie e mia figlia, le quali sono d'accordo con me nel definirmi tutt'altro che “perfetto”. Inoltre, tentare di costruire una campagna o un movimento è qualcosa che ti consuma completamente. A volte mi sembra di essere un guastafeste perché se parlo di quel che sto facendo in un contesto sociale subito l'atmosfera precipita nel gelo.
Prendete la classica festicciola del sabato sera, con amici e conoscenti. Se premo il pulsante rappresentato da una qualsiasi di queste parole: “stupro”, “attivismo” o “cambiamento”, uno degli ospiti dirotterà immediatamente il discorso sul gusto del dessert o sulla bontà del pollo arrosto. Ormai scommetto con me stesso su quale sarà il cibo di cui finiremo per parlare.
Sul finire del mio discorso agli alunni della prima elementare ho posto loro una domanda retorica: “Perché mi preoccupo tanto di quel che succede alle donne e alle bimbe in tutto il mondo?”. Tutti i piccoli si sono girati a guardare mia figlia, che ha cominciato ad arrossire e a sorridere nervosamente. Hanno capito che è per lei.
Spero che un giorno il mio impegno ventennale a favore di donne e bambine significherà qualcosa per lei e per i suoi compagni di classe. Al momento, la mia figlioletta sa solo che suo padre sta lontano per giorni, a volte per settimane intere, e ritorna solo per poi partire di nuovo, giusto quando lei ed io avevamo ripreso a conoscerci davvero. Ma resto su questo sentiero perché c'è speranza: c'è speranza in un movimento di donne e uomini.
Lo vedo ogni giorno: gruppi di giovani uomini che si oppongono alla violenza contro le donne nei campus universitari; iniziative dal basso spuntano ovunque sul web; coalizioni si formano fra organizzazioni attraversando il globo. Nel mezzo di tutta l'oscurità di cui ho fatto esperienza come giornalista la luce resisteva sempre, nella creatività e nella fede di innumerevoli persone che sopravvivono nelle condizioni peggiori che possiate immaginare.
Il mio scopo, lo scopo finale della campagna “Man Up” è fare spazio per quella luce, ed ottenere che mia figlia, i suoi compagni e le sue compagne, possano vivere in essa.
Jimmie Briggs
Jimmie Briggs è insegnante, scrittore, attivista; vive a New York; il suo prossimo libro, Le guerre che le donne combattono: messaggi di un padre a sua figlia, sarà pubblicato nel 2011. Per saperne di più sul suo lavoro: www.manupcampaign.org
traduzione di Maria G. Di Rienzo
(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 28 aprile 2010)