«l’uomo ha sempre qualcosa da essere»
Heidegger, Essere e tempo
«Abbandoneremo la voce, là, dove i significati si perdono inseguiti da un pensiero, lo stesso di sempre espresso tutto d’un fiato e fallito per troppa diligenza, o per assenza di canto»
(da Porto Palos)
Porto Palos è prosa poetica di un viaggio esistenziale che offre al tempo, la meditazione di sé e allo spazio, angoli dove la parola, tra il dirsi e il ritrovarsi, mantiene tesa e vibrante la corda nel coniugare, pur in un possibile sbilanciamento tra passato e futuro, l’essenza viva di “percepire se stessi nell’oggi”.
Porto Palos è anche dalla sua etimologia “palus”, palude, deriva della parola, sprofondamento, naufragio, immobilità, affissione del tempo-dolore all’anima muta, morte emorragica, svuotamento che spingono alla ricerca e scelta di “un altro andare” anche se cibati di dolore e nostalgia o “abissalmente” abdicati alla vita. «...tragittiamo incerti, trascorriamo, e così ci trasformiamo da confidenti distratti di ricordi in memoria pendenti nell’aria, sollevati appena».
Con un raccolto differimento del sé, l’autore rimanda a continue soste e successive partenze, “il raggiungimento della meta” e con vari registri poetici ne sottolinea la necessità. Egli si affida ad un intensa apertura esistenziale con graduale confidenza e viaggia con la parola nell’alterna vicenda umana dove il destino imperscrutabile è spesso disperso in una progettualità futura che sconcerta il passato e ignora “il conoscersi nel presente”. La casa del tempo, rifugio e verità, tentativo e meditazione, sfugge l’approdo, in un sincero convincimento di un succedersi “oltre il predefinito storico” in una poesia che «vede l’equilibrio tra l’istante che viene e l’istante che va, nell’istante che resta ma non basta a rassegnare conforto».
«…mentre la sera ci sorprende ancora intenti all’attesa di un senso che ci prenderà senza comprensione, noi vaghiamo e frughiamo buio e stelle, e impazienti e snervati scivoliamo in sogni che poi scordiamo».
Sfiniti dall’aspettativa di un miglior tempo, scoloriamo albe e notti e disegniamo progetti senza accorgerci che «non è tempo, non è più tempo per un’idea che sia la costruzione lenta di un deserto, il luogo aperto di un giardino, il fiorire sensato ancora di un’altra idea». Né leopardiana trepidazione dell’attesa, né fissità della memoria; sono due i binari che invece scorrono paralleli nel testo di Angelo Andreotti, una ricerca del presente come conoscenza dell’anima e una possibilità di stabilire un agito «calpestando orme già tracciate e previste nei passi che abbiamo sollevato». Dal porto dal quale decide di salpare nascono la percezione e cognizione del silenzio, consono a cercare “la parola seconda”, consapevole «di un ricordo che pian piano smette le sue ragioni».
Nell’accezione di poesia come costruzione dell’io, la raccolta del poeta suona di espressioni intense e febbricitanti di allontanamenti e distacchi, ammaraggi e riprese assieme alla lucida consapevolezza che la morte soltanto possa fermare il viaggio («a noi non è il finire a tormentarci, ma il pensiero dell’ultima scorsa prima di andare»). Nel caso capitasse in una qualche sosta rincontrare fantasmi di memorie, allora… «Sia leggero quel vuoto anziché cavo, e come volo innalzi ciò che resta agli occhi di chi resta, lasciando spazio all’idea che da terra spingiamo al largo per un viaggio senza racconto». Cammina piano l’anima, si lascia carezzare dall’aria, poggia piano sull’erba, lascia un’impronta di permanenza che avvolge e conforta il poeta-viandante «e nell’odore di una pioggia che arriva – ma non ancora – si scontorna il respiro largo di una serenità che attesa saprà raggiungerci, non appena sarà il tempo per gli occhi di saper vedere quel che sa sempre è lì, quantunque sfocato dal nostro sconsolato bisogno di dolore, che immobilizza il gioioso srotolarsi di una corsa in avanti» che con comprensione attraversa la strada e la suggerisce silenzioso al lettore.
Il testo si snoda da precedenti poesie a cui deliberatamente si è data forma di prosa poetica, diario di viaggio che conosce l’armonia della meditazione dell’essere e che ha ali per “rimanere a terra cercando Dio nelle pieghe dell’animo”.
Delle poche poesie del testo, due di esse (pagg. 58-59) ampliano il loro senso se lette specularmente. L’operazione-lirica non è stata voluta e, quando a dirmelo è stato lo stesso poeta, ho avvertito lo spaesamento insieme all’ampiezza della ricerca costante che informa il testo, esplodere in quelle due pagine, le cui parole si rincorrono “vicine di tempo e spazio”, in una melodia che veleggia perché i sogni non sfumino all’alba.
Respira forte infatti il sogno dell’uomo-autore ma prima che si dilegui, il poeta offre una sosta all’andare, chiara, una pausa breve che impronta di una profonda rifrangenza del cuore, l’indice del testo e differisce ancora la meditazione del pensiero, al prato dell’anima.
Nel tempo andiamo
inciampando nel senso
ogni qual volta
risuona il silenzio
all’ombra di un risveglio
(«è compito del poeta inesprimere l’esprimibile e trovare la parola seconda», Roland Barthes).
Angelo Andreotti è nato nel 1960 e vive a Ferrara. Saggista e scrittore di cose d’arte, attualmente è direttore dei Musei Civici d’Arte Antica della sua città.
Ha pubblicato Polaroid (Ferrara 1999) e La Faretra di Zenone (Ferrara 2008).
Una sua prosa è comparsa nel 2003 su Yip, la rivista di italinistica dell’Università di Yale.
Patrizia Garofalo
Angelo Andreotti
Porto Palos
Book, 2010, pagg. 96, € 12,00