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Elena Milashina ricorda Anna Politkovskaya e Natasha Estemirova 
Una medicina come l'omicidio dà assuefazione. E le autorità russe ne sono intossicate
27 Aprile 2010
 

Ricordo chiaramente il giorno in cui appresi che la mia amica e collega, Anna Politkovskaya, era stata assassinata.

Ero nel mio ufficio, e lavoravo al nuovo numero di Novaya Gazeta il principale quotidiano indipendente russo. Alle 6 del mattino, l'editore capo Dimitri Muratov mi annunciò che avevano sparato ad Anna un'ora prima. La notizia era scioccante, ma assolutamente prevedibile. Come molti di noi alla Novaya Gazeta, Anna era stata in bilico sul confine fra la vita e la morte per un periodo di tempo assai lungo: così lungo che ci eravamo abituati alla minaccia di perderla.

Era il 7 ottobre 2006. Anna, la giornalista più famosa in Russia, era stata uccisa fuori dal suo appartamento. Fu un omicidio su commissione, e noi tutti capimmo perché era accaduto; le autorità, sia in Russia sia in Cecenia, erano disturbate dai nostri reportage e dalle nostre indagini, ed avevano dichiarato “nemici” i giornalisti della Novaya Gazeta. Anna era in cima a quella lista.

Era una dei pochissimi reporter che continuavano a parlare della Cecenia, la regione contesa dove due anni di guerre per l'indipendenza hanno finito per produrre uno dei più duri regimi totalitari mai visti, del tutto benedetto da Mosca.

Nel 2006, i giornalisti in maggioranza avevano semplicemente smesso di recarsi in Cecenia, e scrivevano favole sulla supposta stabilità che le forze di Mosca avevano ottenuto nella regione. Ma Anna non si sarebbe mai tirata indietro allo stesso modo. Scrisse delle torture, dei rapimenti, delle uccisioni di civili innocenti per mano delle autorità russe e cecene, azioni che non sono ancora state punite. E osò anche scrivere che il presidente ceceno Ramzan Kadyrov e quello russo Vladimir Putin erano responsabili in prima persone per queste atroci violazioni dei diritti umani.

Quando seppi della morte di Anna, stetti in piedi tutta la notte a rovistare negli archivi della Novaya Gazeta, risalendo al 1999, quando Anna aveva iniziato a lavorare per il giornale. Ho spulciato i suoi articoli per estrarne i più importanti. Ma Anna non ha mai scritto qualcosa che non fosse importante. Ha scritto del dolore e della sofferenza delle persone, criticando senza remissione le autorità russe e cecene per le loro politiche e le loro azioni. In totale, Anna scrisse cinquecento articoli per la Novaya Gazeta. E questo è il motivo per cui è morta.

Poco tempo prima della sua morte, Anna mi disse che presto sarebbe diventata nonna, e che avrebbe lasciato il lavoro perché “i nipotini rendono la vita degna di essere vissuta”. Ma non ha mai incontrato la sua prima nipote, che è nata nel febbraio 2007 e che porta il suo nome.

 

Dopo il suo assassinio, io presi il lavoro da dove Anna lo aveva lasciato, e cominciai a fare viaggi in Cecenia. Dapprima vi andai su incarico del giornale, ma da quando la Novaya Gazeta ha giudicato troppo pericoloso assegnare giornalisti alla regione ci vado di mia iniziativa.

Nonostante le minacce non riesco a fermarmi: è diventata una questione di principio. Nel luglio 2009, senza avvisare alcuno del mio viaggio, mi recai in Cecenia per investigare sulla questione delle esecuzioni extragiudiziali assieme alla mia amica Natasha Estemirova, attivista per i diritti umani.

Non dimenticherò mai la mia ultima conversazione con lei. Era la sera del 13 luglio, alcune ore prima che io mi imbarcassi su un aereo per tornare a Mosca. Fino a notte inoltrata discutemmo della situazione in Cecenia e nel nord del Caucaso. Al termine della conversazione, dissi a Natasha che la situazione in Cecenia era straordinariamente pericolosa. «Devi andartene», le dissi. «Devi fermarti per un po', e prenderti cura della tua figlia quindicenne». Ricordo che addirittura scherzammo sul fatto che sarebbe stata una vergogna se lei fosse stata uccisa prima di poter scrivere un libro sulla Cecenia.

Partii per Mosca il 14 luglio, Natasha restò. Il 15 luglio Natasha venne rapita e assassinata. Sono passati nove mesi dal suo omicidio. Non ci sono dubbi che sia stata uccisa per aver portato alla luce gli abusi commessi dalle forze dell'ordine e dalle agenzie di sicurezza in Cecenia. Noi sappiamo chi le ha sparato, e chi ha dato l'ordine di farlo. Anche gli investigatori lo sanno. Ma i suoi assassini sono sotto la protezione del Cremlino, e quindi intoccabili. È la stessa faccenda per il caso di Anna Politkovskaya: dopo più di tre anni, nessuno è stato punito.

 

La gente spesso mi chiede se mi spaventa fare ciò che faccio, dopo che così tanti amici e colleghi sono morti. Sì, sono spaventata, ma non per la mia vita. Intendo continuare il mio lavoro in Cecenia e nella regione del nord del Caucaso: perché sono più spaventata dalle conseguenze del non rendere nota la verità che dal morire.

Ricordo come il mondo reagì all'assassinio di Anna. Leader internazionali chiesero alle autorità russe di scoprire e punire i colpevoli. Le organizzazioni internazionali dichiararono che l'omicidio di un giornalista è un abuso inaccettabile. La gente in tutto il mondo scese in strada in ricordo della coraggiosa donna che era stata assassinata per aver fatto il proprio lavoro. Cos'è cambiato? Se qualcosa è cambiato, è cambiato in peggio.

Dopo la morte di Anna, una nuova stagione di uccisioni ha avuto inizio nel mio paese. Attivisti per i diritti umani e giornalisti vengono ammazzati con tale frequenza, in Russia, che la notizia della nuova vittima non appassiona più nessuno. Solo durante lo scorso anno sei fra attivisti, dissidenti politici e giornalisti sono stati assassinati. Tutti lavoravano per lo stesso scopo: fare in modo che le autorità russe rispondessero per gli omicidi illegali di civili nel nord del Caucaso. Io conoscevo tutte e sei le vittime. Tre di esse erano miei amici. So che per nessuno di questi omicidi sono in corso indagini.

Questo non preoccupa né svergogna le autorità russe. Al contrario, esse incoraggiano gli assassini fornendo loro impieghi governativi e garantendo loro l'impunità legale.

Resta il fatto che i giornalisti e gli attivisti per i diritti umani che ancora osano dire la verità sono un mal di testa per le autorità russe, le quali usano la medicina più forte che sia disponibile per evitare di riconoscere le proprie responsabilità: l'omicidio. Una medicina di questo tipo dà assuefazione. Le autorità russe ne sono intossicate.

Ma il mondo è ancora silenzioso. E questo silenzio mi spaventa più di ogni altra cosa.

 

Elena Milashina

traduzione di Maria G. Di Rienzo

(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 27 aprile 2010)

 

 

Elena Milashina è cronista per la Novaya Gazeta e risiede a Mosca; nel 2009 ha ricevuto il Premio “Alison Des Forges”, conferitole da Human Rights Watch per il suo impegno per i diritti umani.


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