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Francesco Pullia. Animalismo e vegetarianesimo, il nuovo possibile
23 Aprile 2010
 

Ha ragione Guido Ceronetti a constatare che, ahinoi, siamo una civiltà cartesiana in cui l'animale, l'altro di noi (non da noi), è considerato né più né meno che come un orologio, puro movimento automatico, privo di anima.(1)

Cartesio, si sa, è espressione emblematica di quel pensiero dell'arroganza antropocentrica che, esaltando la specie umana, ha progressivamente condotto alla nientificazione dell'animale (si pensi a Paolo di Tarso, ad Agostino di Ippona, a Tommaso d'Aquino), fornendo giustificazione alla tetra teologia del mattatoio,(2) alla cultura imperante, ritrovandosi persino nell'abominevole tesi heideggeriana secondo cui l'animale sarebbe povero di mondo (Weltarm) e vivrebbe in uno stato di ebetudine (Benommenheit).

Certo è che, come ha osservato nel 1981 Marguerite Yourcenar, «se non avessimo accettato, nel corso delle generazioni, di veder soffocare gli animali nei vagoni-bestiame, dove si spezzano le zampe, come succede a tante mucche e cavalli mandati al mattatoio in condizioni assolutamente infernali, nessuno avrebbe sopportato i vagoni piombati degli anni 1940-1945, neppure i soldati addetti alla scorta».(3) Il mattatoio ci insegue come un'ombra, incombe come un incubo sulle nostre coscienze e, come saggiamente afferma Ceronetti, ci maledice tutti.(4) Tuttavia, non è che il tragico esito di un percorso infernale costituito dalla catena degli allevamenti intensivi.

È vero, è proprio vero, che, come ha scritto Isaac Bashevis Singer, nei confronti degli animali tutti siamo nazisti, Treblinka dura in eterno.(5) Dovremmo vergognarcene profondamente e, invece, eccoci pronti, condizionati dal martellamento pubblicitario, a trangugiare hamburger, bistecche, würstel, prosciutti, salsicce, cosciotti di pollo o di tacchino, scatolette di tonno e chi più ne ha ne metta in una voracità fomentata ad arte che incide, eccome, nella distruzione dell'ecosistema. Continuiamo a tollerare l'esistenza di planetari luoghi di tortura e degrado trincerandoci dietro un'ipocrita dimenticanza e mangiamo, mangiamo, gonfiamo sconsideratamente le guance sino a rendere i cavi orali impregnati d'alitosi e le pance devastate dall'obesità.

Solo per restare in Italia, nel nostro paese ci sono circa cinque milioni di obesi con un costo sociale annuo di 8,3 miliardi di euro, pari a circa il 6,7% della spesa sanitaria pubblica. Coloro che sono affetti da questa patologia sono, nel mondo, oltre 250 milioni ed il trend è in crescita. Si tratta di dati allarmanti soprattutto per la popolazione giovanile.

Secondo la Fao entro il 2050 i consumi mondiali di carne raddoppieranno. Oggi si calcola che gli animali allevati sulla Terra superino di circa dieci volte gli umani: 1.300.000.000 di bovini, 1.000.000.000 di suini, 1.700.000.000 di ovini e caprini, ben 52.000.000.000 di avicoli, 900.000.000 milioni di conigli, senza considerare pesci e crostacei. Raddoppiare ulteriormente questi numeri significa portare il pianeta al collasso. L'allevamento intensivo figura tra principali cause d'allarme ambientale nel pianeta dal momento che contribuisce con percentuali altissime all'inquinamento dell'aria e dell'acqua, alla deforestazione, alla perdita della biodiversità nonché al riscaldamento globale. I cittadini pagheranno sempre di più con la loro salute un metodo di produzione altamente rischioso. Eppure il sistema alimentare attuale può essere riconvertito in un sistema sostenibile iniziando dal non considerare più gli animali come cibo. Proteine, carboidrati, vitamine, sali minerali e benefici grassi sono ampiamente disponibili nel mondo vegetale. Per produrre un chilogrammo di carne sono impiegati mediamente 100 mg di antibiotico che finiscono nei nostri piatti. Un italiano medio che consuma circa 87 kg di carne ogni anno (senza considerare i prodotti ittici) ingerisce involontariamente quasi nove grammi di antibiotici, equivalenti alla somministrazione di circa quattro terapie antibiotiche all'anno.

Vicini alle nostre case ci sono esseri che, solo per scopi alimentari, vengono selvaggiamente mutilati, sottoposti a inenarrabili efferatezze, sgozzati, squartati. Le loro rabbrividenti lamentazioni, le loro urla non ci raggiungono perché abbiamo ipocritamente tappato le orecchie. La nostra vista è tanto ottenebrata da passare indifferenti davanti al sangue che gronda dai banconi. Se lo scorgiamo, ci appare addirittura normale, scontato, una questione abitudinaria.

Ecco, allora, che l'animalismo e il vegetarianesimo sanciscono una rottura netta con il vecchio modo di vivere e diventano una questione politica, una presa di coscienza a favore di un modello più responsabile basato sull'interdipendenza e sulla compassione, sull'estensione generalizzata dell'empatia rifkiana.(6)

Quando incontro un essere senziente, diceva Capitini, non posso ammettere che «poi se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com'è ora, perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, dei dolore, della morte».(7) Con il vegetarianesimo «si realizza principalmente il riconoscimento del valore dell'esistenza di quegli esseri animali contro i quali si decide di non usare l'uccisione, e, di riflesso, si realizza una maggiore persuasione che non si debba usare violenza contro gli esseri umani».(8)

Il legame con l'animale, con l'altro di noi, che il delirio antropocentrico ha voluto in tutti i modi occultare, riemerge ogniqualvolta siamo chiamati a rispecchiarci nella sofferenza.

È un dolore intenso quello che provava Rosa Luxemburg nell'assistere, rinchiusa nel carcere di Breslavia, alla violenza commessa su un bufalo da un soldato: «sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un'espressione simile a quella di un bambino che aveva pianto a lungo. Era davvero l'espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta…gli stavo davanti e l'animale mi guardava, mi scesero le lacrime - erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza».(9)

Scrivendo nel dicembre 1917 a Sonička Liebknecht, ammetteva di sentirsi tutt'uno con quel bufalo. Allo stesso modo, Franz Kafka ha descritto attimi di sconforto e sprofondamento nell'udire i muggiti di un bue assalito da nomadi intenti a strappare, con i denti, brandelli di carne viva(10) e Joseph Roth ci ha reso partecipi dell'orrore che si consuma al mattatoio dove «cadono buoi e vitelli sacrificati allo stomaco dell'uomo»(11) e «Dio, invisibile e sordo, si nasconde».(12) Non a caso Theodor Adorno ha sostenuto che «Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali».(13)

Non si tratta soltanto di sollevare una questione di pietà, che pure dev'esserci,(14) ma di fare un salto in avanti lungo la strada di una consapevolezza ecosofica che si regge sull'interdipendenza, sull'inter-essere, sull'oltrepassamento sul vincolo specista.

In questo senso, ha fatto bene Jeremy Rifkin ad evidenziare il contrasto, anche stridente, tra animalismo e movimento ambientalista tradizionale intento a considerare la flora e la fauna in un'ottica, neanche poi tanto sotto mentite spoglie, antropocentrica, mirante cioè a soddisfare le future necessità dello sviluppo umano (15).

Ciò che qui ed ora, subito, occorre è un cambiamento radicale. Un contributo nella giusta direzione ci viene da Jonathan Safran Foer con Se niente importa,(16) fondamentale testimonianza sui danni inferti al pianeta dagli allevamenti intensivi e sui livelli di follia e crudeltà originati da un sistema nutrizionale indotto dalla politica delle grandi catene alimentari. L'autore sfata, tra l'altro, anche il mito del cibo biologico che, pur fornendo maggiori garanzie di sicurezza, non garantisce affatto un trattamento migliore degli animali.

Se davvero ci stanno a cuore le sorti della Terra, considerati gli effetti devastanti prodotti dagli allevamenti intensivi e la loro rilevante incidenza sul riscaldamento globale, diventa essenziale la scelta di nutrirsi o no con carne o pesce.

Nel corso della sua ricerca durata quasi tre anni, Foer ha potuto verificare con visite dirette, interviste a numerosi addetti ai lavori, rischiose incursioni notturne quale inferno, ai più inimmaginabile, si cela dentro capannoni, mattatoi, stanzoni con macchinari per la confezione di alimenti destinati a finire sulla tavola di chi non vuole aprire gli occhi sugli olocausti perpetrati dall'industria della carne, dei prodotti ittici (si pensi alla tremenda pesca a strascico, a quella con il palangaro o con rete a circuizione), delle uova. È in corso una vera e propria guerra di sterminio che non esita a ricorrere alla manipolazione genetica, alle torture più efferate, all'impiego di antibiotici e dei più diversi tipi di farmaci per nutrire forzatamente e in modo innaturale gli animali in batteria. Stipati, violentati, con i becchi recisi, le code e le zampe mozzate, le branchie tagliate, coperti di sangue e di piaghe, sventrati con i figli ancora in grembo, disidratati, dissezionati senza aspettare che almeno siano morti, ridotti a oggetto, mercificati, massacrati nei campi di concentramento che ovunque pullulano nel mondo, gettati in gigantesche fosse stracolme di sterco e urina, gli animali ci interrogano, chiedono risposte che non si possono eludere.

Quando alziamo la forchetta, diciamo non solo da che parte stiamo rispetto agli altri di noi, ma anche al mercato globale, alla desertificazione, alla deforestazione, alla destinazione di immensi ettari a foraggio per gli allevamenti industriali, alla sottrazione di quegli ettari, dell'acqua necessaria all'irrigazione, dei cereali ad un'umanità demograficamente esplosa in cui ogni giorno aumenta di duecentosettantamila unità il numero di chi è condannato alla fame.

«Reagire», afferma Foer, e noi con lui, «esige una capacità di attenzione che va al di là delle informazioni e al di là delle contrapposizioni tra ragione e desiderio, fatto e mito, e persino umano e animale. L'allevamento intensivo cesserà prima o poi per via della sua assurdità economica. È completamente insostenibile. La terra finirà per scuoterselo via di dosso come un cane si scuote via le pulci, resta da vedere se finiremo scossi anche noi».

 

Francesco Pullia

(da Notizie radicali, 14 aprile 2010)

 

 

(1) G. Ceronetti, La carta è stanca. Una scelta, Adelphi, Milano, 2000, p. 70.

(2) Cfr. I filosofi e gli animali. L'animale buono da pensare, a cura di G. Ditadi, AgireOra, Torino, 2010, p. 13.

(3) ivi, p. 15.

(4) G. Ceronetti, op. cit., p. 69.

(5) C. Patterson, Un'eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l'Olocausto, tr. it. M. Filippi, Editori Riuniti, Roma, 2003.

(6) J. Rifkin, La civiltà dell'empatia, tr.it. P. Canton, Mondadori, Milano, p. 430.

(7) A. Capitini, Religione aperta, Neri Pozza, Venezia, 1964, pp. 12-13.

(8) A. Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1937, nuova ed. con introduzione di N. Bobbio, Bologna, Cappelli, 1990, p. 74.

(9) R. Luxemburg, Un po' di compassione, a cura di M. Rispoli, con testi di K. Kraus, un'ignota lettrice della “Fackel”, F. Kafka, E. Canetti, J. Roth, Adelphi, Milano, 2007, p. 20.

(10) ivi, p. 37.

(11) ivi, p. 46.

(12) ivi, p. 48.

(13) C. Patterson, op. cit., p. 57.

(14) Cfr. P. Martinetti, Pietà verso gli animali, Il melangolo, Genova, 1999.

(15) J. Rifkin, op.cit., p. 430.

(16) J.S.Foer, Se niente importa, tr.it. I. Abigail Piccinini, Guanda, Parma, 2010.

(17) ivi, p. 282.


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