«Una ciabatta in mezzo al mare». Così Ventotene viene definita da Camilla Ravera nel suo Diario di trent’anni. In quella “ciabatta” Mussolini ha relegato circa ottocento antifascisti, a “villeggiare”, come dirà, con gusto davvero discutibile, Silvio Berlusconi. In questa “ciabatta”, mentre patiscono i rigori della persecuzione fascista, e mentre l’Europa e il mondo sono dilaniati dalla guerra, tre persone straordinarie, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, concepiscono e “firmano” quel “sogno” laico che si chiama “Manifesto per un’Europa libera e unita”, più conosciuto come “Manifesto di Ventotene”: un testo fondamentale, che mette le basi del Movimento Federalista Europeo, e prefigura quegli Stati Uniti d’Europa, che noi oggi vogliamo e per i quali siamo impegnati.
Spinelli viene deportato qui a Ventotene nel 1929. Nell’isola ci sono tutti quegli antifascisti che costituiscono la spina dorsale dell’opposizione al regime, e che non sono stati uccisi o costretti all’esilio. Una “colonia” composta da almeno duecento comunisti, ma ci sono anche anarchici, socialisti, repubblicani, militanti di Giustizia e Libertà, anche qualche testimone di Geova.
Ci sono Mauro Scoccimarro e Lugi Longo, a capo di una cellula comunista di stretta osservanza moscovita; ci sono Umberto Terracini e Camilla Ravera, che per non aver approvato il trattato Molotov-Ribbentrop, il patto di non aggressione stipulato da sovietici e nazisti, patiscono un lungo, doloroso, ostracismo e isolamento dai loro stessi compagni. A Ventotene è a lungo detenuto anche Sandro Pertini. Quando Spinelli, Rossi e Colorni gli sottopongono in visione il “Manifesto” accetta di sottoscriverlo. Poi però i suoi compagni lo costringono a ritirare la firma.
Ha diciassette anni, Spinelli, quando si iscrive al Partito Comunista, e partecipa alla lotta clandestina. Antonio Gramsci, che non è prodigo di elogi, e anzi è piuttosto severo nei giudizi, ne parla come di un giovane “serio e prudentissimo”. Una prudenza che tuttavia non gli evita l’arresto, nel 1927, a Milano. Il tribunale speciale fascista lo condanna a sedici anni e otto mesi. Ne sconta sei, a Civitavecchia. Scarcerato, nel 1937, è arbitrariamente mandato al confino a Ventotene, per altri sei anni. Carcere e confino sono la sua università, come per tanti antifascisti: lo racconta molto bene Vittorio Foa nelle sue lettere dal carcere. Spinelli studia scienze, lingue, storia, filosofia; vigoroso e indomabile, coltissimo, sa coniugare raffinato sapere a anticonformismo istintivo e doti di grande umanità. È in questo periodo che matura il distacco dalle tesi di allora del PCI, rigidamente filo-staliano, che gli procura l’espulsione dal partito; e nei lunghi giorni del confino matura la sua coscienza di irriducibile alfiere del federalismo, che ben assimila le opere dei federalisti britannici del XVIII secolo, e mette a profitto il fitto scambio di letture con Ernesto Rossi e Luigi Einaudi.
È grazie a Spinelli, Rossi, Colorni, se Ventotene oggi è simbolo e sinonimo di europeismo. «Se Ventotene ha lasciato in me un segno indelebile, anch’io l’ho a mia volta segnata», scrive nelle sue memorie. «Quel manifesto ha reso il nome dell’isola, prima oscuro, noto in tutta Europa».
Il “Manifesto di Ventotene” dovrebbe essere un libro di lettura nelle scuole, d’Italia e d’Europa; perché ha il grande pregio di tradurre le idee dei grandi pensatori del passato e della contemporaneità in un vero e proprio programma politico di ampio respiro. Ne ricavano che per contrastare le tendenze dittatoriali ed espansionistiche dei singoli stati nazionali, è urgente e necessario dare vita a un solido stato federale, che si sostituisca ad essi. E già allora si prefigura una moneta unica, un’unica politica estera, economica e di difesa; con chiarezza si sostiene che la battaglia politica per la creazione di questa struttura creerà una frattura tra le forze politiche nazionali: da una parte quelle schierate nella miope difesa dello status quo, oggettivamente reazionarie; e quelle innovative che aderiscono al progetto. Siamo nel 1941, ed è davvero straordinaria la pre-veggenza degli autori del “Manifesto”, l’attualità di quelle intuizioni e proposte.
Davvero infaticabile, Spinelli. Liberato nell’agosto del 1943, con la caduta di Mussolini, corre a Milano e fonda il Movimento Federativo Europeo. Nel Movimento troviamo personaggi come Rossi, Giorgio Braccialarghe, Arialdo Banfi, Leone Ginsburg, Manlio Rossi Doria, Vindice Cavallera, Vittorio Foa, Franco Venturi, tanto per citarne alcuni. Sono giorni di frenetica ed esaltante attività: allaccia rapporti di collaborazione con Adriano Olivetti, e con altri esuli e confinati realizza le basi per l’internazionalizzazione del Movimento. Nell’aprile del 1944 è a Parigi, protagonista di una riunione storica: con William Beveridge, George Orwell, Albert Camus e altri politici e intellettuali inglesi, francesi, tedeschi e svizzeri, fonda il Comitato Internazionale per la Federazione Europea.
È sempre stato un battitore libero, che però ha giocato un ruolo determinante, come, per esempio, la genesi del progetto della Comunità Europea di Difesa, la CED, nel 1954: un progetto che prevede la creazione di un vero e proprio esercito europeo, che presuppone la nascita e la costituzione di un potere politico soprannazionale. Un progetto che naufraga a causa della Francia, che decide di non ratificarlo; e dunque si riparte da zero. È in queste difficoltà che maggiormente risaltano le qualità di Spinelli, il suo non darsi per vinto. C’è un discorso a Torino, del 1957 (la foto si riferisce a quell'evento, ndr), che racchiude il nocciolo del suo pensiero: gli stati europei devono rinunciare a parte della loro sovranità; e gli europei devono partecipare alla definizione di una costituzione che inquadri le forme e le responsabilità di una nuova forma di governo sopranazionale.
«L’originalità del Manifesto», ha scritto Norberto Bobbio, «consiste nel proporsi non tanto come una generica dichiarazione di principio, ma come un concreto programma di azione, specificatamente finalizzato alla realizzazione della federazione europea». Lui, Spinelli, nel suo libro biografico Come ho tentato di diventare saggio, così racconta la nascita e la genesi del “Manifesto”: «Scorgevo quale sarebbe stato il mio cammino. Nel tetro inverno ’40-’41, quando quasi tutta l’Europa continentale era stata soggiogata da Hitler, l’Italia di Mussolini ansimava al suo seguito, l’URSS stava digerendo il bottino che era riuscita ad afferrare, gli Stati Uniti erano ancora neutrali e l’Inghilterra sola resisteva, trasfigurandosi agli occhi di tutti i democratici d’Europa in loro patria ideale, proposi ad Ernesto Rossi di scrivere insieme un “manifesto per un’Europa libera e unita”, e di immetterlo nei canali della clandestinità antifascista sul continente. Sei mesi dopo, mentre gli eserciti hitleriani si riversavano sulle terre russe, passando ancora, come l’anno prima in Europa, di vittoria in vittoria, il Manifesto era pronto… Il Manifesto è stato ed è ancora un testo vivo e significativo per molti suoi lettori, soprattutto grazie a due idee politiche che gli erano proprie. La prima era che la federazione non era presentata come un bell’ideale, cui rendere omaggio per occuparsi poi d’altro, ma come un obiettivo per la cui realizzazione bisognava agire ora, nella nostra attuale generazione. Non si trattava di un invito a sognare, ma di un invito a operare. La seconda idea significativa consisteva nel dire che la lotta per l’unità europea avrebbe creato un nuovo spartiacque tra le correnti politiche, diverso da quello del passato…».
E in un’intervista raccolta da Gianfranco Spadaccia e pubblicata su Astrolabio il 26 febbraio 1967, pochi giorni dopo la morte di Rossi, circa il contributo suo e di Rossi alla battaglia federalista, così riassume i termini della questione: «Rossi da solo non avrebbe promosso la battaglia federalista. Però senza Rossi il federalismo non avrebbe avuto la fisionomia che ha avuto».
Gualtiero Vecellio
(da Notizie radicali, 22 maggio 2006)