Jane Gabriel – Quando hai ricevuto il Premio “Olof Palme” nel 2005 la motivazione fu: «Per aver reso l'eguaglianza di diritti fra uomini e donne tema centrale della lotta per la democrazia in Iran». Fino a che punto il “movimento verde” ha fatto propria la tua richiesta di eguaglianza di diritti?
Parvin Ardalan (foto): Le donne iraniane hanno cominciato a rivendicare i loro diritti un secolo fa: prima il diritto all'istruzione, poi a far parte del Parlamento, poi la riforma del diritto di famiglia, e infine il diritto di voto. Dopo la rivoluzione del 1979 abbiamo perso alcuni dei diritti che avevamo ottenuto, come quello, per le donne musulmane, di non doversi interamente coprire. E la poligamia, che era stata resa più difficile, dopo la rivoluzione è diventata di nuovo facile. Le leggi divennero religione, il governo divenne religione, il potere divenne religione. O accettavamo tutto ciò sotto l'ombrello dell'Islam, o dovevamo sforzarci di cambiare la nostra situazione. E quindi, di nuovo, ci siamo messe a lottare per i nostri diritti.
Negli ultimi trent'anni le donne sono state capaci di usare diverse strategie per costruire un movimento pacifico. Le tre cose principali che abbiamo tentato erano e sono: fare tutto il lavoro “faccia a faccia”, toglierlo dalla marginalità e farlo diventare senso comune, destare consapevolezza nell'opinione pubblica. Abbiamo sempre anche lavorato per costruire il movimento in senso orizzontale, senza strutture verticali. Se ci fai caso, il “movimento verde” ha cominciato con il diritto di voto. “Dov'è il mio voto?” è stato il primo slogan, e il più usato, ed ha finito per significare: “Dov'è il mio diritto?”. Perciò, quando ha avuto inizio, il movimento ha usato le strategie delle donne, in particolare quelle relative alla “Campagna per un milione di firme”. I due movimenti sono simili; entrambi vogliono diritti e libertà, entrambi agiscono pacificamente ed entrambi sono movimenti orizzontali e diffusi.
Quello delle donne era più piccolo, ovviamente, ma è cresciuto a poco a poco in tre anni. Non stavamo lottando per il potere, per il potere politico, stavamo lottando per i nostri diritti. In questo senso, entrambi i movimenti sono per i diritti umani. Le elezioni del 12 giugno concernevano il potere politico, ma quando le persone hanno scoperto che il loro diritto di voto veniva violato, allora la cosa si è trasformata in un vasto movimento sociale. È stato un processo naturale. Molte delle persone nel “movimento verde” venivano dalla “Campagna per un milione di firme”, per cui non c'è stata la sensazione che dovessimo chiedere al nuovo movimento di includere le nostre richieste, giacché noi stesse eravamo in esso.
Ci sono stati diversi movimenti durante il periodo in cui non avevamo partiti politici, come il movimento degli studenti, quello dei lavoratori, quello delle donne: tutti sono diventati parte del “movimento verde”, il movimento che vuole democrazia e diritti. Non sono subordinati ad esso. Quando una persona chiede i propri diritti sta dicendo: “Sono responsabile delle domande che faccio” e “Sono parte di questo movimento sociale”. Io non lo chiamo neppure “movimento verde”, e nemmeno “movimento delle donne”, perché quando chiediamo dove sono i nostri voti stiamo chiedendo dove sono i nostri diritti, stiamo parlando dei diritti di una società nel suo insieme.
Quando lotto per i miei diritti sto lottando per l'eguaglianza fra donne e uomini. Quando lotto per la libertà di voto si tratta di un diritto universale in cui non puoi separare la parte delle donne dalla parte degli uomini. Questo è un diritto di tutti.
Ci sono state discussioni nel movimento delle donne, perché alcune pensavano che Mousavi e Karoubi dovessero includere le nostre richieste nei loro discorsi e nelle loro campagne, ed altre pensavano che non era necessario, giacché le nostre richieste le stavamo facendo da noi, e molto chiaramente. Così, con altri gruppi, il movimento delle donne ha dato inizio alla campagna “Chiamata alla solidarietà: libertà ed equità di genere in Iran”, e ciò significa che diamo sostegno ad ambo i generi e che la lotta è per l'eguaglianza dei diritti e la libertà. In questo modo il discorso è divenuto più ampio, e negli ultimi sei mesi il popolo iraniano ha avuto modo di mostrare al mondo che quel che cerca sono diritti e libertà.
Numerosi gruppi di donne hanno deciso, dopo le elezioni, di non comunicare più con il governo, perché il governo ha perso la sua legittimità. Per esempio, la “Campagna per un milione di firme” prevedeva la consegna delle firme raccolte al Parlamento, ma ora la gente non vuol più firmare nulla, perché pensa sia inutile far richieste ad un governo illegittimo. La situazione è quindi cambiata: le persone vogliono eguaglianza, ma non credono più che l'approccio giusto sia chiederla al governo, perciò persino i gruppi che avevano contatti diretti con il governo oggi non li hanno più.
Io penso che se il governo di Ahmadinejad regge, finirà per cercare di aver rapporti con questi gruppi, al fine di riguadagnare legittimazione. Al momento questa non c'è.
C'è ancora un gruppo di donne che lavora sul diritto di famiglia ed un altro sull'eguaglianza di diritti, perché un certo numero di associazioni si sono formate all'interno della “Campagna per un milione di firme”. Quando il “movimento verde” ha cominciato a prendere forma, il governo ha introdotto una nuova legge sulla “protezione della famiglia” che rendeva la poligamia ancora più facile. Il Parlamento all'inizio l'ha approvata, ma noi abbiamo manifestato contro di essa e la clausola sulla poligamia è stata modificata in modo che per avere altre mogli l'uomo deve ottenere il permesso della prima. Loro pensavano che la gente non li stesse osservando, ma le donne erano vigili ed hanno continuato a far pressione rispetto alle istanze femminili. Ora, mentre la gente viene arrestata e buttata in prigione, il movimento delle donne sta ancora protestando, ed è una forza potente. Ed è anche chiaro che il governo ha capito che le strategie usate dal “movimento verde” e dal movimento delle donne sono ormai condivise.
– Cosa pensa tua madre del tuo lavoro come attivista per i diritti umani?
È molto fiera di me. Ha avuto una brutta esperienza dopo la rivoluzione, perché il nuovo diritto di famiglia permise a mio padre di sposare una seconda donna e perciò la nostra vita, la vita di mia madre, fu grandemente danneggiata, cambiò del tutto. Allora lei mi disse che se volevo diventare una giornalista avrei potuto scrivere di queste cose, ma che se volevo che le persone non perdessero i loro diritti avrei dovuto fare in modo di dirle in tribunale. E io continuo a fare questo, continuo a seguire i suoi desideri.
– Sei in contatto con tuo padre?
È morto.
– È scomparso prima che tu divenissi nota a livello internazionale come attivista per i diritti delle donne?
Quando lui era vivo, io ero assai conosciuta in Iran, ma non a livello internazionale.
– Hai mai parlato con lui, prima che morisse, dei tuoi valori e dei valori di tua madre?
Sì, parlai con lui. All'inizio gli dissi che lo odiavo per quello che aveva fatto a mia madre, ma gradatamente fra noi si formò dell'amicizia, una relazione, ed io cominciai a pensare che era anche lui una vittima della legge, assieme a mia madre ed alla sua seconda moglie: e fu allora che capii che dovevamo cambiare leggi simili. Gli dissi che se lui avesse saputo davvero qualcosa della poligamia non avrebbe fatto quel che aveva fatto, ed egli si arrabbiò molto. Cominciò col dirmi che era suo diritto, e che tale diritto gli veniva dall'Islam. Io gli risposi che non gli veniva dall'Islam, ma dalla legge. E poi discutemmo un altro pò, e mio padre capì che non stavo dando la colpa a lui, e cominciò a cambiare. Disse: “È legale, e come diritto legale me lo sono preso, ma se vuoi togliermelo dovresti tentare di cambiare la legge”. Io replicai: “Sì, tenterò di togliertelo”. Il che è esattamente quel che è accaduto poi.
I miei fratelli e mia sorella mi sono di sostegno, e anche se a volte si scoraggiano il nostro motto è sempre stato “Sì, possiamo farcela”. Quando seppi che ero lo slogan di Obama lo trovai molto divertente; il nostro scherzo divenne: “Come, ci sta copiando?”. Lo slogan della campagna elettorale di Karoubi era “Cambiamento”. Penso si possa dire che questa idea è cominciata fra le donne, e proprio perché eravamo in uno stato pessimo: è quando perdi tutto che cominci a creare il cambiamento.
– Quanto sono stati difficili gli ultimi dieci anni per te?
Lavoro per i diritti delle donne da ben più di dieci anni. Per molto tempo abbiamo organizzato manifestazioni di donne in parti diverse dell'Iran, siamo state arrestate e condannate. Io ho subito interrogatori sotto ogni presidente che c'è stato da Rafsanjani in poi; sono sempre gli stessi, in versioni leggermente differenti. Quando arrivò Ahmadinejad, ad una nostra manifestazione di donne arrestarono 70 persone, e mi condannarono a tre anni di carcere di cui avrei dovuto scontare almeno sei mesi. Il caso sta ancora viaggiando nei tribunali.
– Ricevere il Premio “Olof Palme” nel 2005 come ha influenzato il tuo lavoro?
Ovviamente è stata una buona cosa, perché era un momento di intensa oppressione e si trattava di un premio non governativo, il che mi conferiva ulteriore legittimazione. Io ero felice perché il premio andava a persone che lottavano per la democrazia. Mi ha reso più fiduciosa in me stessa, ed allo stesso tempo mi ha resa più responsabile. Il governo continua a far pressione su di me, ma io non voglio smettere di essere un'attivista, perché penso che le azioni pacifiche in cui sono coinvolta sono troppo importanti.
Ci sono momenti in cui sono così stanca che vorrei ritirarmi, ma per la maggior parte del tempo no, perché se guardo al futuro l'idea che possano fermarci è troppo triste: una nuova generazione si sta alzando in Iran, i giovani sono pieni di speranza rispetto alle cose da ottenere. Quando mi hanno arrestata e condannata è stato brutto, ma poi sono tornata nelle strade, e non ero sola, c'era così tanta gente con me.
– Una delle discussioni in corso qui, alla Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne, è se dovremmo investire energie nel coinvolgere gli uomini. Tu stai tentando di farlo?
Quando demmo inizio al movimento per l'eguaglianza lavoravamo solo fra donne, perché avevamo necessità di darci potere l'un l'altra. Ma a poco a poco, sentendoci sempre più sicure di noi stesse, abbiamo cominciato a lavorare con altri movimenti e con gli uomini. Quando lanciammo la “Campagna per un milione di firme” capimmo che per far passare l'idea degli eguali diritti dovevamo parlare con gli uomini, ed ora ne abbiamo parecchi che sono attivisti per i diritti delle donne. Uno di essi è assai conosciuto, Kaveh Kermanshahi: è un uomo molto gentile, e si trova in prigione per aver lavorato con noi e a favore dei diritti del popolo curdo. Quando cominciammo a lottare per i nostri diritti, comprendemmo che dovevamo onorare anche i diritti degli altri, e collaborare con altri. Perciò ci sono uomini al lavoro per l'eguaglianza, e ciò significa che stanno lottando anche per i diritti delle donne. L'eguaglianza di genere e la nostra campagna “Chiamata alla solidarietà: libertà ed equità di genere in Iran” non sono intese solo per le donne: è anche per tutti gli uomini che stiamo chiedendo diritti e libertà.
– Pensi che valga la pena partecipare alla Commissione qui a New York?
Abbiamo costruito campagne e reti proprio per ottenere solidarietà a livello globale. Per l'8 marzo, Giornata internazionale della donna, abbiamo chiesto ai gruppi presenti qui, alla LIV Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne, di essere coinvolti nella lotta per l'eguaglianza di genere dovunque, in Iran e nel mondo. Abbiamo chiesto alle donne che organizzavano eventi per l'8 marzo, in tutto il mondo, di includere nelle loro discussioni e nei loro materiali informazioni sui diritti delle donne iraniane e sulle lotte in Iran. Abbiamo chiesto loro, anche, che facessero pressione sui loro governi affinché questi ultimi, a loro volta, facessero pressione sul governo iraniano per il rilascio dei prigionieri politici.
È importante continuare a costruire la rete andando oltre il modello della “Campagna per un milione di firme”. Ma quando arrivo qua tutte mi chiedono: “Come possiamo aiutarvi?”. È sempre la stessa domanda, ed io penso che dovrebbe cambiare, che dovrebbe essere: “Come possiamo aiutarci le une con le altre?”. Se tu pensi di potermi aiutare, allora tu sei “qui” e io sono “là”. Ma se ci chiediamo reciprocamente come possiamo aiutarci stiamo pensando di più in termini di eguaglianza. E se lavoriamo stando sullo stesso livello, allora possiamo aiutarci l'un l'altra. Perciò, prima di pensare di essere d'aiuto, cambia la domanda. Dopo di che, insieme possiamo davvero fare tutto.
[Intervista realizzata il 24 marzo 2010 in occasione della LIV sessione della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne]
Traduzione di Maria G. Di Rienzo
(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 11 aprile 2010)