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Dovete sapere che nella stessa via dove sorgeva il palazzo della baronessa Eufemia, c’era anche un palazzotto abbastanza malandato nell’aspetto, ma in realtà solido e ben costruito. Era abbastanza decadente per sembrare vecchio e non abbastanza per sembrare antico. Era un palazzotto così.
In un appartamento di questo fabbricato viveva la signorina Asteria, un’attempata e gentile ricamatrice, molto brava nel suo lavoro, ma un po’ svampita. Questa Asteria possedeva una vezzosa gattina bianca a pallini rosa, alla quale voleva un gran bene.
– Una gattina bianca a pallini rosa? – mi chiederete stupefatti.
– Sissignori, – vi risponderò – proprio così. Bianca a pallini rosa.
Ovviamente in natura non poteva esistere una gatta simile. Infatti Chicca (questo era il nome della bella gattina), era semplicemente bianca. Di pelo liscio e morbido ma bianco. Era la signora Asteria che, una volta alla settimana, munita di una boccetta di tintura all’anilina e di un pennellino, picchiettava di rosa tutto il corpo della bestiola.
Era una debolezza dell’anziana signorina quella di dipingere la sua Chicca, perché voleva che si distinguesse dalle altre gatte del vicinato. In più la profumava di mughetto, le metteva grossi fiocchi multicolori e le aveva comprato un grazioso collarino di cuoio rosa tempestato di acquemarine.
La bellissima Chicca era la passione di tutti i gatti del vicinato. Di fronte a lei, tutte le altre giovani gatte dei paraggi, per quanto carine fossero, facevano la figura di bertucce rachitiche vicino a Miss Universo. I gatti maschi delle rovine romane non osavano nemmeno alzare gli occhi su di lei; pensavano anzi che fosse la reincarnazione di un’antica dea egiziana.
Chicca era assolutamente insensibile a ogni più ardente miagolata d’amore. Non si curava affatto dei gatti che la mangiavano con lo sguardo, ma li fissava fredda e distaccata, con il bel nasino in aria, per niente commossa dalle loro sofferenze amorose.
La gattina bianca a pallini rosa soleva sedere tutta contegnosa sul balconcino del salotto della signorina Asteria che abitava al secondo piano. Di lassù seguiva con occhio piuttosto indifferente lo scarso traffico della via sottoistante e gettava gelide occhiate ai gatti dei ruderi, i quali, consci come già detto del loro modestissimo ceto, non osavano nemmeno guardarla. Negli altri balconi, sui tetti di altri palazzi della strada, invece, decine di altri gatti sostavano in perpetua adorazione della vezzosa Chicca.
Ma un giorno la bella Chicca vide un meraviglioso gatto all’altro lato della via. Era grande, camminava maestosamente con la testa eretta e la coda in verticale. E poi era azzurro come il cielo. Che gatto!
Alla vista di quel meraviglioso esemplare di gatto, bello come un giorno di sole, il gelo che circondava il cuore di Chicca si sciolse all’improvviso. Ed ella cominciò a miagolare e sospirar dolcemente per richiamare l’attenzione del gatto sconosciuto. Questi sembrò non accorgersi di niente e, attraversata la strada, si infilò nel portone del palazzo acanto.
La Chicca sapeva che dietro il palazzo c’era un giardino al quale si poteva giungere percorrendo un complicato itinerario tra tetti, terrazzini, verande e scale esterne. C’era andata qualche volta in passato, in quel giardino, ma per andarvi doveva passare sotto gli occhi dei vari gatti che le spiavano da tutte le parti. E questo le dava fastidio.
Ora però le venne improvviso il desiderio di tornare in quel giardino. Chissà che non avesse potuto incontrarvi il gattone azzurro!
La signorina Asteria, vedendo la sua Chicca così irrequieta e miagolante (il che accadeva assai di rado), si impensierì e volle darle una pillolina calmante, ma la gatta le sfuggì di mano e passando per la terrazzina di cucina, scese nella veranda sottostante e poi sul tetto di una rimessa e di lì, lungo i pali di sostegno di una pergola, fino al giardino della baronessa Eufemia.
Il bel gattone c’era, compostamente seduto su una panchina di pietra, con i grandi occhi socchiusi, intento a ricaricarsi le pile all’aria fresca.
Chicca, di cui il micione immobile non si era accorto, ebbe così modo di guardarlo con tutta calma. Era proprio il più stupendo gatto che avesse mai visto: grande, con il pelo lucidissimo e di un azzurro unico. Prese allora a passeggiargli sotto il naso, con la coda fremente e in verticale, miagolando sommessamente e ronfando con dolcezza.
Il gattone continuava a ignorarla e se ne restava fermo come fosse stato scolpito nella pietra. Chicca, abituata com’era alla sconfinata ammirazione degli altri gatti, si sentì offesa per tanta indifferenza. Piuttosto piccata balzò sulla panchina di pietra, si strusciò al bel gatto e con la morbida zampetta gli diede un buffetto sulla testa.
I transistori sensori del gatto-robot, non programmati per i contatti con altri gatti, percepirono una sensazione nuova. Fu come se una non prevista scossa elettrica li mettesse in funzione con programmi diversi. Il gattone spalancò gli occhi, agitò la coda e dolcemente restituì il buffetto alla gattina bianca e rosa.
– Mi chiamo Chicca, – disse lei.
– Io… io… io… mi… mi… mi… chia… chiamo… Vesper… Vesperti… Vespertino… Vespertino…
– Che bel nome! – mormorò lei.
E intanto pensava:
– Così bello e purtroppo balbuziente. Ed ha anche un miagolio metallico!
Poteva immaginare la vezzosa Chicca che, per colpa sua, tutti i transistori del gattone erano impazziti? Che quelle parole erano le prime che lui avesse mai miagolate? Che tra lei e Vespertino era scoccata una scintilla vitale che avrebbe dato sentimenti e vita al robot?
Appena il robot-gattone ebbe miagolato le sue prime parole si operò in lui una magica trasformazione. Gli occhi, di solito luminosi ma freddi, acquistarono i lampi corruschi del gatto maschio, il pelo assunse tinte grigiastre e parve perdere la lucentezza che lo distingueva. Il miagolio divenne imperioso.
Chicca, la bellissima gattina bianca a pallini rosa, stupita dapprima e poi spaventata dal repentino mutare di Vespertino, fuggì verso la sua casa sicura per la medesima via donde n’era venuta.
Il gattone rimasto solo continuò a miagolare gagliardamente cercando per ogni dove l’affascinante micetta. La cercò anche nell’interno del palazzo, di stanza in stanza, di sala in sala, con prolungati brontolii e richiami penetranti.
La baronessa Eufemia, altamente stupita per quanto accadeva, non riconobbe in quel gatto irrequieto e strillone il suo compito Vespertino. Non tollerando ulteriormente l’intrusione di quell’animale indesiderato, prese a rincorrerlo con un bastone d’ebano (ricordo del defunto barone), seguita a sua volta dal maggiordomo, dalle domestiche e dalla cuoca.
Lo rincorse di stanza in stanza, di sala in sala con scarso successo, perché il gatto sembrava imprendibile. Ma se la bestia era astuta e si nascondeva nei luoghi più impensati, la baronessa era oltremodo tenace. A lungo andare ella riuscì a colpire il gatto e nemmeno troppo forte, fra testa e collo, proprio nel delicato punto di congiunzione delle varie parti del robot costruito dal Professor Oliverius.
Allora accadde l’imprevisto, l’assolutamente inatteso. Con uno stridio metallico il robot si disintegrò in cento pezzi che si sparsero un po’ ovunque, con grande sbigottimento della gentildonna che rimase con il bastone in aria.
– Ma era Vespertino! Era il mio gatto-robot! – strillò costernata. – Come può essere successo? Andate a chiamare subito il Professor Oliverius! – Strillò ancora – Intanto non toccate niente!
Lo scienziato giunse di lì a qualche minuto. Informato di quanto era accaduto, fu accompagnato nella stanza ove si trovavano tutti i pezzi del gatto: viti, rotelle, fili elettrici, transistori, brani di velluto azzurro, frammenti metallici.
Mentre incredulo egli osservava quello scempio, fui colpito da un qualcosa sul pavimento.
– E questo che cos’è? – si chiese.
Si chinò e raccolse un piccolo cuore di gatto, ancora vivo e pulsante.
– Ma io questo non ce l’avevo messo! – esclamò.
4
Intanto la vezzosa Chicca, ritornata all’edificio accanto al palazzo baronale, aveva ripreso il suo posto nel balconcino dell’appartamento della signora Asteria. Mollemente accovacciata su un cuscino, guardava distratta il traffico nella via sottostante, e gettava qualche occhiata sprezzante ai gatti plebei che pullulavano tra le rovine romane.
Immobile, tutta bianca, con il suo gran fiocco e gli incredibili pallini rosa, non sembrava vera… La si sarebbe detta una gatta-robot, come era stato l’infelice Vespertino, morto d’amore per lei.
ALDO ZELLI
(2. – fine. Qui la prima parte con nota bio-biblio Autore)
Commento a Il gatto robot
Tratto da Per conoscere Aldo Zelli di Gordiano Lupi
Il gatto robot non è un vero e proprio libro ma un opuscolo pubblicato nel 1981 dall’Amministrazione comunale di Piombino in occasione della “Mostra del libro per bambini nella scuola e nella famiglia”.
Si tratta di un librettino di ventitré pagine contenente la fiaba e nove simpatici disegni realizzati da Anna Maria Pistolesi Intini, cognata dell’autore. Il gatto robot è una fiaba moderna che in poche pagine dà spazio a tutta la fantasia di Zelli. Dobbiamo confessare che sono queste le cose che più apprezziamo nella sua sterminata produzione narrativa. A nostro avviso è proprio in questi racconti brevi dal taglio surreale che Zelli riesce a dare il meglio di sé, rendendo credibili situazioni paradossali.
Il professor Oliverius ha inventato un gatto meccanico dal pelo azzurro che non sporca, non perde il pelo, non miagola, non chiede da mangiare. In compenso dà la caccia ai topi e fa scappare blatte, scarafaggi e formiche per mezzo di speciali emissioni radar. La baronessa Eufemia è subito entusiasta dell’invenzione e prende con sé il gatto, che in men che non si dica le libera la casa e gli immediati paraggi da topi e insetti fastidiosi. La baronessa dà al gatto il nome di Vespertino, perché caccia i topi soltanto la sera. Il racconto è ambientato al Foro Traiano di Roma, proprio nei pressi del Palatino e del Colosseo. L’autore non lo dice esplicitamente ma si comprende dai dialoghi e da certe situazioni (come quando il gatto-robot regala i topi ai gatti che abitano nei vicini ruderi romani). E poi lo sappiamo che il Foro Traiano è da sempre rifugio di tutti i gatti di Roma. Qui il nostro Vespertino conosce la bella gattina bianca a pallini rosa di nome Chicca e succede una cosa incredibile. Il gatto subisce una trasformazione, tutti i suoi circuiti elettronici vanno in tilt e dentro il suo petto spunta un cuore vivo e pulsante. “Ma io questo non ce l’avevo messo!” esclama meravigliato il professor Oliverius. Non c’è lieto fine, però. Vespertino muore per amore.
Una fiaba moderna, scritta anche con un linguaggio nuovo, ricca di neologismi e di trovate interessanti. Zelli inventa addirittura parole come insporcabile e insbiadibile, che anticipano tante trovate di narratori contemporanei. Segno che in narrativa c’è ben poco da inventare e che spesso gli autori tradizionali hanno già detto tutto e sono riusciti a farsi più trasgressivi degli sperimentalisti. (Gordiano Lupi)