Dobbiamo riportarli al rispetto della legge
Julio, avvocato
Ho passato la settimana scorsa da un ufficio legale all’altro per sporgere una denuncia per detenzione illegale e maltrattamenti. Alla fine di febbraio una serie di arresti arbitrari hanno impedito a oltre un centinaio di persone di partecipare alle attività collegate al funerale di Orlando Zapata Tamayo. Sono stata rinchiusa anch’io in una cella, durante quel mercoledì grigio mentre mi dirigevo a firmare il libro di condoglianze autorizzato nella casa di una Dama in Bianco. Il grado di violenza impiegato contro di me e il mancato rispetto dei procedimenti legali per incarcerare un individuo, mi ha spinto a presentare un’istanza, anche se le speranze che venga accettata e discussa in tribunale sono poche.
L’esperienza sofferta il 6 novembre del 2009, quando io e diversi blogger siamo stati vittime di un sequestro illegale da parte dei membri della Sicurezza di Stato, ci ha fatto temere che certi atti possano ripetersi in qualunque momento. Per questo motivo porto sempre con me un registratore e una macchina fotografica, strumenti utili per realizzare una testimonianza dell’accaduto. Il 24 febbraio scorso la vita mi ha dato ragione e ha confermato le mie preoccupazioni. Fortunatamente il mio telefono mobile ha registrato l’audio di come si sono svolti di fatti e persino dopo che mi era stato sequestrato ha continuato a registrare le conversazioni tra gli agenti della Sicurezza di Stato e i poliziotti - senza distintivo - che ci avevano rinchiuso con la forza nella stazione situata tra Infanta e Amenidad. La testimonianza è molto completa, contiene i nomi dei responsabili, svela il sottofondo politico di un’operazione che aveva come obiettivo oppositori, giornalisti indipendenti e blogger, inoltre è avallata dalla dichiarazione dei testimoni presenti.
Ho inviato copie di questa documentazione di “sequestro” al Tribunale Militare della Repubblica e anche agli organismi internazionali dei Diritti Umani che proteggono i giornalisti e ai settori collegati con i maltrattamenti. Per portare a termine questa impresa mi sono fatta assistere da diversi avvocati. Anche se esistono poche possibilità che qualcuno venga giudicato, almeno i responsabili sapranno che le loro atrocità non saranno coperte dal silenzio della vittima e dal bavaglio imposto ai testimoni.
La tecnologia ha permesso di far venire tutto alla luce. Pubblico soltanto i minuti iniziali di una registrazione che ancora oggi mi fa male ascoltare. Il resto del materiale lo renderò pubblico dopo che saranno trascorsi i 60 giorni di cui dispone il Tribunale Militare per darmi una risposta.
Non avevo voluto rivelare prima questi fatti perché non volevo che l’attenzione dei media venisse distolta neppure per un istante dagli spiacevoli eventi che si stanno verificando nel mio paese. La voce femminile che mi accompagna durante la registrazione è di mia sorella, Yunia Sánchez. La trascrizione di questo frammento la potete leggere qui.
Trascrizione della registrazione di alcuni minuti, realizzata da un telefono mobile la sera dei fatti:
– Si identifichi, per favore. Per favore, per favore.
– Chi siete? L’autorità? No. Pretendo un poliziotto in uniforme.
– Lasciatela – dice Yunia, mentre assiste ai primi tentativi per immobilizzare le mie braccia.
– Non la far passare, non la far passare
– … lei è un’autorità? No.
– Guarda qui – mi disse una delle donne mostrandomi rapidamente un documento del quale feci appena in tempo a vedere una lettera “E” azzurra.
– Nooo. Nooo. State incorrendo nel reato di coercizione, impedendomi di fare qualcosa... lasciatemi... lasciatemi... lasciatemi... – due donne tentavano di immobilizzare le mie braccia.
– Lei conosce il reato di coercizione? Lei mi sta impedendo di fare qualcosa che la legge non vieta.
– Lei non si è identificata. Si identifichi – spiega uno dei civili a un altro che sta arrivando.
– Chi è lei? Io mi identifico solo di fronte a un poliziotto in divisa. Mi chiami un poliziotto in divisa.
– Aspetti che adesso arriva.
– Io non riconosco nessuno in abiti civili. Perché lei può essere una sequestratrice, una violentatrice.
– Adesso arriva.
– Basta, non devi darle spiegazioni – dicono tra loro le due donne.
– È chiaro, perché voi non siete l’autorità. Voi non potete fare queste cose.
– No?
– Voi non potete fare queste cose.
– Perché non possiamo fare queste cose? Chi lo dice?
– Perché siete in abiti civili, non avete l’ordine di un giudice, né un’autorizzazione di polizia. Non potete.
– Ma lei non è in stato di arresto.
– Proprio per questo motivo.
– Le abbiamo solo chiesto di identificarsi.
– Identificarsi? Mi hanno insegnato sin da bambina che può pretenderlo soltanto una persona che possiede un distintivo con un numero... una persona in divisa...
– È un errore, soltanto un tuo errore.
– No.
Arriva un’auto con le sbarre e cerco di fare una telefonata per rendere noto quel che sta accadendo.
– Qualche problema?
– Vediamo di spengere questo telefono.
– Non spengo proprio niente. Le ho già detto che sta incorrendo in un reato di coercizione.
– Spengi il cellulare.
– Non spengo proprio niente.
– Non mi tocchi.
– Le ho già detto che è un reato di coercizione.
– Attento, non mi tocchi. Non mi tocchi.
– Eh?
– Adesso sono arrivate le persone con il distintivo che vuol vedere.
– Bene, perfetto, andiamo là.
– Guarda le persone con il distintivo.
– Bene, perfetto, andiamo là. Andiamo là. Perfetto, molto bene. Non ho paura della polizia. Attento, non mi tocchi. – Le donne vestite con abiti civili continuavano a cercare di immobilizzarmi e di togliermi il telefono mobile.
– Ha capito che non può chiamare?
– Non mi tocchi più!
– Io sono, io... che cosa crede? – disse quella con la camicia rossa e gli occhi dal taglio cinese.
– Allora, che cosa sta succedendo qui? – cominciarono i primi colpi forti.
– Questo è un reato.
– Sì, sì, sì – disse uno con ironia.
– Siete proprio dei codardi!
– Questo è l’unico sistema?
– Lasciatemi!
– Lasciatemi! – mia sorella era già stata fatta salire nell’auto con le sbarre.
– Cosa le stanno facendo?
– Vada dentro, dentro...
– No, io non posso permettere che le facciano questo.
– Vada dentro, dentro...
– Lasciatemi!
– Lasciatemi!
– Vada dentro...
– Lasciatemi!
– Lasciatemi!
– Lasciatela!
– Lasciatemi!
– Lasciatemi!
– Lasciatemi!
– Lasciatemi!
– Lasciatemi!
– Entra dentro…
– Lasciatela!
– Lasciatemi!
– Lasciatemi!
– Lasciatela.
– Entra dentro, cazzo!
Chiusero la porta lasciandomi insieme a mia sorella in compagnia di un uomo e di una donna che indossavano abiti civili. L’auto con le sbarre si mosse.
– Cosa state facendo? Violatori di diritti.
Yoani Sánchez
Traduzione di Gordiano Lupi