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Monica Lanfranco. Faccende da donne
06 Aprile 2010
 

Paura. Una morsa fisica allo stomaco mi ha stretta alla notizia che i due neoeletti governatori leghisti hanno proclamato la guerra santa alle donne. Mi sono sentita in pericolo, con tutta la forza stordente di un attacco di panico assolutamente non previsto, e del tutto irrazionale. Che mi succede, ho pensato quando ho cercato di riprendere a respirare normalmente. Sono qui, nella cucina di una casa di campagna, in Italia. Vedo gli alberi dalla finestra, va tutto bene. Hai mezzo secolo, questo paese ha visto vittorie importanti, come il divorzio, la legge di parità, quella sul diritto di famiglia, la 194; godi come cittadina dell’eredità e del lascito del movimento delle donne, scrivi e leggi libri sul femminismo, non vivi a Teheran, questa è una democrazia.

Eppure mi sono ripresa del tutto solo quando, per fare cessare il tremore interiore, sono uscita di casa, d’istinto mi sono chinata sul prato e ho composto un piccolo mazzetto giallo di margheritine selvatiche. La loro quieta bellezza mi ha consolata e solo allora ho iniziato a pensare con calma, mettendo in ordine le emozioni.

Non è una novità che i temi legati alla sfera riproduttiva, e quindi all’autodeterminazione sul corpo femminile siano usati come merce di scambio: è già avvenuto in passato e questo immondo mercato ha coinvolto anche la sinistra.

La Lega ha bisogno di fare patti con il Vaticano, dopo la distanza che si è creata sulla questione immigrazione e razzismo. Se le gerarchie ecclesiastiche fanno muro contro la deriva razzista nel nome della carità e della civiltà cristiana, la mediazione con i celuduristi si può sostanziare nell’accordo sulla piaga originaria che genera tutti i mali dell’odio verso la differenza: il sessismo. Dove, se non sull’autonomia del corpo delle donne, è possibile l’alleanza di ogni patriarcato con ogni fondamentalismo religioso?

E quindi via ai vaneggiamenti dei due governatori, generati dalla profonda ignoranza che alimenta l’arroganza tipica degli incompetenti, che proclamano che non permetteranno che la Ru486 arrivi negli ospedali, che faranno pressione sui dirigenti ospedalieri (una pratica che sfida apertamente la legalità), che chiedono la testa di chi dirige l’Agenzia del farmaco. E via, di conseguenza, ai commenti di neoeletti e neoelette leghiste che bollano, in primo luogo e all’unanimità, l’alternativa chimica all’aborto chirurgico come “un metodo che lascia da sole le donne”. Ecco il punto. Ecco l’origine della morsa e della paura, prima ancora dello sdegno e della rabbia.

Le donne, io stessa, non siamo cittadine adulte in una comunità di pari: siamo soggetti ai quali riservare attenzione perché da sole non ce la facciamo a decidere. Siamo portatrici, a tutte le età e condizione sociale, di un handicap inevitabile perché il nostro è il genere minore, il secondo sempre, anche quando seguisse il destino assegnato di docili gregarie in quanto figlie, sorelle, mogli, madri.

Certamente sì, le si celebra all’ombra del Po come brave fattrici e miss padane, le “nostre” donne dai grandi fianchi instancabili lavoratrici nordestine. Le prostitute però si preferiscono scure, almeno quelle in strada, ma si sa che su questo argomento si trovano anche gli accordi bipartisan con i maschi di sinistra.

Ma tutte, proprio tutte, abbiamo da essere sorvegliate soprattutto e specialmente nella sessualità e nelle scelte riproduttive.

Con una incongruenza lampante e possibile solo nella politica patriarcale, quelle che sono normalmente rubricate come “faccende da donne”, secondarie sempre nei programmi della politica, cioè tutto il lavoro sociale della riproduzione, assieme a quelli definiti “temi eticamente sensibili” (comprese le scelte affettive e gli orientamenti sessuali), diventano all’improvviso centrali, e imprescindibili.

Si sa che si tratta di pretesti, di merce di scambio, come lo sono i quarti di donna esposti prima in tv e poi passati di mano in mano alle feste come premio dei vincitori ai vassalli.

In questo gioco nessuno si senta innocente, però. Poco prima delle elezioni Radio Popolare mi chiamò per un microfono aperto nel quale si discuteva della sentenza che sancisce come discriminante e passibile di denuncia l'affermazione che le donne non possono, in quanto donne, accedere a determinate carriere lavorative. Eloquenti le reazioni di chi intervenne: le donne affermarono che si trattava di una sentenza giusta perché il sessismo è un male ancora radicato e da combattere con ogni strumento, dalla cultura alla legge, mentre in formazione compatta gli uomini all’ascolto (di sinistra) definirono quell’intervento e quel tema “una sciocchezza” che distoglieva dai veri problemi del paese.

È così che accade che si dichiara guerra alle donne: con pensieri e pratiche che sminuiscono, umiliano, rendono insignificanti e invisibili quelle “faccende da donne”, che sono, invece, in quanto diritti della metà e oltre della specie umana, il cuore dello stato di civiltà di un paese, e del mondo intero.

 

Monica Lanfranco

(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 5 aprile 2010)


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