L’Avana. Nel 1959 i “barbudos” arrivarono al potere e bollarono tutti i loro nemici come “sbirri e torturatori della tirannia”. In seguito alle leggi rivoluzionarie che portarono alla confisca di tutte le proprietà produttive, in quel gruppo iniziale di nemici entrarono anche “gli sfruttatori degli umili” e i nostalgici del “mortificante passato capitalista”. Negli anni Ottanta agli oppositori del sistema si aggiunsero quelli che “non erano disposti a sacrificarsi per un futuro luminoso”.
Da decine di anni a Cuba sono comparsi anche i cubani secondo i quali le cose si dovevano fare in un altro modo, quelli che sono arrivati alla conclusione che un intero paese fu trascinato in una missione impossibile, molte persone che vorrebbero introdurre qualche riforma e perfino qualcuno che vorrebbe cambiare tutto. Ma i “barbudos” continuano a fare di tutta l’erba un fascio, aggiungendo ai loro nemici tutti quelli che osano scontrarsi con l’unica possibile “verità” monopolizzata dal potere. Non importa se sono socialdemocratici o liberali, democristiani, ambientalisti o semplicemente dissidenti indipendenti. Sono tutti oppositori, mercenari, vendipatria, insomma, agenti dell’imperialismo. Sfortunatamente, le etichette non riempiono solo i discorsi e gli editoriali della stampa ufficiale, ma svolgono un ruolo anche nei registri della polizia e nei documenti della giustizia. Ecco perché ci sono almeno duecento cubani detenuti per le loro opinioni, che scontano condanne in carcere con l’accusa di aver commesso atti che la legislazione nazionale considera reati comuni e che non avrebbero niente di criminale se il paese avesse un sistema politico più tollerante e plurale.
Yoani Sánchez
(da Notizie radicali, 30 marzo 2010)