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Erveda Sansi. “Da noi stessi” di Judy Chamberlin 
Auto-aiuto ed empowerment
30 Marzo 2010
 

«Per tutto il medioevo, i capri espiatori furono le streghe; oggi sono la maggior parte dei pazienti psichiatrici e dei malati di mente in generale».

(Thomas Szasz,

Il mito della malattia mentale)

 

 

Judy Chamberlin è una leader storica del movimento dei sopravvissuti alla psichiatria. Recentemente ha fatto sapere che, a causa di una malattia che forse non le lascia molta aspettativa di vita e la costringe a casa, in una situazione di hospice, ha iniziato a scrivere un blog: http://judi-lifeasahospicepatient.blogspot.com, con un invito a interagire con lei. È possibile ascoltare la registrazione di un suo intervento radiofonico su www.blotalkradio.com/davidwoaks.

L’attivista è co-fondatrice del Wnusp - Associazione mondiale degli (ex)-utenti e sopravvissuti alla psichiatria -, del Ruby Rogers Advocacy e del Drop-In Center, un centro di auto-aiuto gestito da e per utenti/sopravvissuti psichiatrici. Ha pubblicato numerosi articoli, promuovendo informazioni sulle metodologie dell’auto-aiuto sviluppate da persone cui sono state diagnosticate serie malattie mentali e sulle alternative al modello medico, tra cui particolarmente quelle amministrate dagli stessi utenti e sopravvissuti. Inoltre si occupa della difesa dei diritti legali e civili di persone etichettate come malati mentali.

Il suo libro On our own: Patient-Controlled Alternative to the Mental Health System è stato tradotto con il titolo Da noi stessi. Un contributo per l’auto-aiuto psichiatrico, pubblicato dall’editrice Primerano; ora è fuori catalogo, ma lo si può trovare in rete sotto forma di e-book. A fronte di un movimento internazionale di sopravvissuti alla psichiatria, in Italia non esiste ancora un’associazione indipendente di persone che sono state etichettate come “malati di mente”; o per meglio dire, esistono gruppi di pazienti che gestiscono progetti, ma sono controllati e cooptati dai servizi psichiatrici tradizionali e all’interno di essi, dove la distinzione tra coloro che prestano aiuto e coloro che lo ricevono rimane chiaramente definito. Si tratta quindi di alternative solo di nome, poiché i sopravvissuti o ex-utenti rivendicano al contrario la libertà di scelta, l’abolizione dei trattamenti coercitivi, lo sviluppo di programmi gestiti da utenti e/o ex-utenti, che rappresentino reali alternative al controllo psichiatrico. Tuttavia Judy auspica una maggiore interazione tra gli attivisti di paesi diversi e la collaborazione tra critici alla psichiatria, siano essi sopravvissuti al sistema o operatori radicali, al fine di «sviluppare un’ideologia in grado di combinare la conoscenza ottenuta utilizzando entrambe queste prospettive […] basata sul fatto di dare potere ed autonomia». «Il libro», scrive nella prefazione, «è indirizzato più specificatamente a coloro che sono o sono stati internati in ospedali psichiatrici – ai pazienti psichiatrici – specialmente a quelli che lottano per definire la loro identità al di fuori del processo di etichettamento e di controllo messi in atto dalla psichiatria».

Nell’introduzione sottolinea come il libro sia scritto dal punto di vista del paziente psichiatrico, considerato generalmente come persona senza volto e senza voce, al peggio come mostro sub-umano e al meglio come patetico storpio. «Non solo siamo stati considerati dagli altri in questo modo stereotipato, ma abbiamo finito col convincercene noi stessi», continua Judy, sostenendo che con la nascita del movimento di liberazione degli utenti psichiatrici, «abbiamo cominciato a scrollarci di dosso questa immagine distorta e a vederci per quello che siamo realmente: un gruppo di persone diverse, con punti di forza e di debolezza, con capacità e bisogni e, soprattutto, con idee precise sulla nostra condizione […] e sui nuovi e migliori metodi per trattare (ed aiutare realmente) persone in stato di crisi emotiva».

Parrebbe che, con la nostra illuminata capacità di uomini moderni, siamo in grado di riconoscere, come fanno gli storici della psichiatria, nei posseduti e nelle streghe, dei malati di mente. L’autrice, mette in luce l’analogia tra streghe e ammalati mentali; gli inquisitori fecero in modo che arrivassero a noi solo quelle informazioni sulle streghe coniate da loro. Allo stesso modo le parole dei cosiddetti malati di mente vengono filtrate attraverso i rapporti dei medici, cui è lecito etichettare paranoide o allucinatoria qualunque parola dell’utente, con la quale sono in disaccordo. «Il ruolo di strega era il tipico ruolo definito da altri. Sotto questo profilo, era identico all’odierno ruolo di chi diventa paziente psichiatrico contro la propria volontà. […] La distribuzione dei poteri tra accusatore e accusato rifletteva i rapporti tra re e servo, il primo in possesso di tutti i poteri, l’altro privo di alcun potere».

Il trattamento coercitivo di persone etichettate come malate di mente, attuato tramite il collegamento tra sistema medico e sistema giuridico, viene giustificato con l’asserzione che le persone malate di mente sono pericolose a sé e agli altri, asserzione che è molto radicata nella nostra cultura, amplificata e diffusa dai media, che frequentemente attribuiscono nelle loro notizie i reati di violenza e i delitti non risolti a “psicopatici” o “pazzi”. In realtà, come dimostra un’ampia letteratura, pazienti o ex-pazienti psichiatrici o futuri pazienti non sono più pericolosi o imprevedibili di chiunque non rientri in questa categoria.

Nei primi capitoli Judy Chamberlin descrive la sua storia di psichiatrizzazione, che comprendeva ricoveri in sei diversi ospedali psichiatrici. «L’intera esperienza della ospedalizzazione psichiatrica favorisce debolezza e dipendenza», ricorda Judy. «I pazienti divengono incapaci di aver fiducia nelle loro capacità di giudizio, divengono incerti, sottomessi all’autorità, impauriti nei confronti del mondo esterno. […] Una conseguenza ovvia del fatto di essere sottoposti ad un tale regime è il senso di spersonalizzazione. Fenomeni di questo tipo sono spesso considerati sintomi primari di malattia mentale». Eppure la natura anti-terapeutica del ricovero in ospedale psichiatrico è stata riconosciuta già da tempo e ne esiste un’ampia letteratura. «Alcuni pazienti hanno trovato aiuto all’interno del sistema psichiatrico. Sono anche stati rinvenuti degli aghi nei pagliai, ma questo non suggerisce che i pagliai costituiscano dei buoni posti dove riporre gli aghi».

Una lenta presa di coscienza e la lotta contro le striscianti convinzioni della sua inferiorità, diedero la possibilità a Judy Chamberlin di esprimere sentimenti di rabbia contro un sistema che l’aveva imprigionata e riempita di farmaci, fino al punto di renderla confusa a tal punto da considerare quel trattamento come un aiuto.

La sua lucida analisi comprende quella dei programmi di auto-aiuto, che a Vancouver/Canada hanno avuto le prime realizzazioni abitative fin dall’inizio degli anni ’70. Gli utenti sono liberi di decidere se e quanto combinare, offerte dai programmi di auto aiuto con l’utilizzo di proposte professionali. Gli utenti, rafforzati dai successi nei gruppi di auto-aiuto, raggiungono la capacità di impegnarsi più energicamente per i loro bisogni, nel sistema psicosociale. Vale la pena soffermarsi sulla parola inglese empowerment, che spesso rimane non tradotta e che in Italia è sussunta in contesti aziendali e dei servizi sociali. Empowerment, che si potrebbe tradurre letteralmente con “l’impadronirsi di se stessi”, per Judy Chamberlin significa la riconquista dell’autodeterminazione, l’esprimersi sulle faccende dell’attuale sistema psichiatrico, la presa di posizione sulle questioni, respingendo il ruolo di chi riceve l’aiuto passivamente. Con altri utenti/sopravvissuti ha sviluppato i seguenti criteri sull’empowerment: «accesso alle informazioni e ai finanziamenti; possibilità di uno spettro di possibilità di scelta, che non solo di tipo “sì/no” e “o/o”; essere decisi, risoluti; acquisire la sensazione che il singolo abbia la possibilità di cambiare (avere speranza); imparare a pensare in modo critico; disimparare a reagire senza pensare; guardare le cose in modo differenziato; parlare con la propria voce; definire nuovamente la propria identità; ridefinire le proprie possibilità e il rapporto con il potere istituzionale; imparare a dare espressione alla rabbia; non sentirsi soli, ma parte di un gruppo; capire che anche una persona singola ha dei diritti; produrre cambiamenti nella sfera personale e in quella collettiva; appropriarsi di attitudini importanti, come la comunicazione; cambiare la percezione delle persone rispetto la propria competenza e capacità di agire; non nascondersi più; crescere e attuare cambiamenti di propria volontà; sviluppare una positiva immagine di sé per superare lo stigma».

 

Erveda Sansi

esansi@libero.it

 

(da 'l Gazetin, dicembre 2009)


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