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Mauro Raimondi. I milanesi e la loro storia. Che non conoscono…
29 Marzo 2010
 

«Pochi sono i milanesi, anche scegliendo gli uomini colti, i quali abbiano un’idea della storia del loro paese»: così scriveva Pietro Verri nel 1783 nella sua Storia di Milano.

Sono trascorsi più di duecento anni, e la situazione non è di certo cambiata. I milanesi, la loro città, la conoscono pochissimo. Sia dal punto di vista artistico sia storico. Eppure, l’interesse esiste. Perché, quando viene organizzato qualcosa di serio, il successo è assicurato. Come testimonia il ciclo di lezioni che è stato tenuto tra il marzo e il maggio 2009 nella Basilica di Santa Maria delle Grazie. Concepito dalla casa editrice Laterza con la collaborazione dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e della Fondazione Corriere della Sera, il seminario è stato seguitissimo ed ora è -per così dire- a disposizione dei lettori grazie ad un testo, I giorni di Milano, uscito nel gennaio 2010 (pag. 241, 20 euro).

Il libro, in dieci capitoli, raccoglie gli interventi dei relatori attraversando tutta la storia della città, dalla sua nascita alla Liberazione. Un excursus bimillenario, come si evince dalla data di fondazione di Milano, secondo Tito Livio avvenuta grazie ai galli biturigi (che modestamente si autodefinivano i “re del mondo”) di Belloveso durante il periodo di Tarquinio Prisco (tra il 616 e il 578 a.C), per altri (Diodoro, Polibio, Plutarco) con l’arrivo dei Celti che conquistarono Roma, quindi verso il 390 a.C. In ogni caso, non un’invasione bensì un episodio di colonizzazione su un territorio dove qualcuno già viveva (Golasecchiani, liguri o celti che fossero), il che anticipava quel destino di convivenza fra culture diverse che sarebbe poi diventato una delle caratteristiche della nostra città.

Nel secondo capitolo si passa invece ad Ambrogio, avviato alla carriera amministrativa dal discusso (per questioni di riscossione di tasse) veronese Sesto Petronio Probo, che abitava a Sirmione e inviò il suo protetto a Milano come governatore della provincia Liguria et Emilia (il termine Lombardia, ovviamente, non era stato ancora inventato). Un Ambrogio serio, molto equilibrato, che in seguito si vide costretto ad “improvvisarsi” vescovo per mediare le (sanguinose) tensioni esistenti nella chiesa milanese, divisa tra ariani ed atanasiani. E qui la leggenda di un Ambrogio che, indeciso se accettare l’incarico, di sera fugge da Porta Ticinese salvo poi ritrovarsi simbolicamente a Porta Romana, si fonde alla realtà storica di un uomo che, forse, si piegò a decisioni di altri. Tanto che, secondo il suo biografo Paolino, arrivò ad invitare prostitute e a proclamarsi interessato alla filosofia neoplatonica pur di dissuadere chi voleva indirizzarlo a quella carriera ecclesiastica che l’avrebbe poi portato a diventare un punto di riferimento essenziale per la città (e la Cristianità) intera, da cui fu molto amato per la sua grande disponibilità.

Lasciato il Santo Patrono, ci troviamo di fronte Federico Barbarossa e il suo tentativo di punire l’indisciplinata Milano, dopo che tutto il Nord Italia, approfittando della latitanza degli altri imperatori, si è abituato ad eleggere dei magistrati per gestire il potere e a riunirsi in assemblea senza che nessuno l’abbia permesso. Lo scontro decisivo, come si sa, avviene a Legnano e i 2.500 cavalieri tedeschi (professionisti, mentre in Lombardia tutti potevano diventarlo, bastava possedere un cavallo), dopo aver debellato i “colleghi” milanesi, si devono inchinare di fronte alla coraggiosa fanteria meneghina. Alla fine moriranno solo qualche centinaio di soldati, ma ciò basterà ad uno stanco Barbarossa per chiedere la mediazione del Papa che condurrà alla pace di Costanza, in cui Federico concede ai milanesi (proclamatisi pentiti!) di riscuotere le regalie (che spettavano a lui, da qui il nome) purché i consoli riconoscano che per questo devono avere l’investitura dell’imperatore. Un compromesso che, per il momento, fa tutti contenti, tanto che il matrimonio di Enrico, figlio del Barbarossa, con Costanza d’Altavilla, viene celebrato proprio a Sant’Ambrogio.

Per motivi di spazio, è ovviamente impossibile andare oltre questa breve sintesi. Nel proseguo del testo, infatti, sono molti gli avvenimenti e i personaggi che ritroviamo. A partire dall’ultimo degli Sforza, Francesco II, la cui tormentata vita si concluse il 1° novembre 1535, a soli 43 anni (e già da tempo camminava con un bastone), anche a causa di un clistere fatale. O a Filippo d’Asburgo, figlio di Carlo V, per accogliere degnamente il quale Gonzaga Ferrante fece abbattere la chiesa Santa Tecla, smantellare vecchie case, logge, portici ed erigere due archi trionfali all’ingresso del palazzo Ducale e a Porta Ticinese (alto 20 metri). Evidentemente, allora come oggi, per fare bella figura con un ospite importante bastava mettere a posto il centro città (e che la periferia si arrangiasse…). Altero, al contrario del padre, semplice e cordiale, Filippo si trattenne a Milano dal 23 dicembre al 7 gennaio (e un torneo in suo onore provocò 2 morti), iniziando quel periodo che vide la città “corazòn del imperio”, cioè cuore politico militare di un’occupazione che, per il prof. Giuseppe Galasso, non fu così terribile come ce la raccontò il Manzoni.

Gli appassionati del Cenacolo possono trovare un intero capitolo (del prof. Pietro C. Marani) dedicato al capolavoro di Leonardo, mentre quello su Il caffè ci ritrae una nobile gioventù milanese impegnata a far penetrare le idee dell’illuminismo in una città inizialmente ostile e oscurantista. I fratelli Verri, Beccaria (nei guai con la famiglia a causa del suo amore per una diciassettenne) e gli altri si incontravano nell’odierna via Montenapoleone, e furono tra gli artefici di quella Ecole de Milan ovunque stimata.

Il legame di Napoleone con la città, con la cronaca de il Corriere milanese sulla sua incoronazione a Re d’Italia avvenuta in Duomo il 26 maggio 1805 (con la Corona Ferrea, a simbolo della continuità con Carlo Magno), anticipa il capitolo sulle immancabili Cinque Giornate, un breve periodo in cui “Milano era una famiglia sola”, come scrisse il Venosta. Lo stesso Verdi si precipitò in una città che, paradossalmente, si sarebbe poi trovata ad interpretare un ruolo politico nazionale di secondo piano, cominciando un rapporto difficile con la Statualità italiana: una vocazione all’opposizione, insomma, causata dal mancato riconoscimento di un ruolo di primo piano sia dal punto vista economico che sociale.

L’esposizione internazionale del 1906 (vista anche come momento di orgoglio cittadino e di un universalismo che poi si sarebbe perso nel tempo) e i giorni della Liberazione (con le “due” piazzali Loreto, quella del 10 agosto ’44 e dell’aprile ’45) chiudono questo ricchissimo testo, che ancora una volta dimostra come la Storia, se ben raccontata, possa essere affascinante come un romanzo. Quel romanzo che i milanesi, finalmente, dovrebbe cominciare a leggere. Salùdi.


Mauro Raimondi



 
 
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