Leggendo le Nuove poesie di Félix Luis Viera tradotte in italiano da Gordiano Lupi...
ORAZIONE PER UN GIOVANE POETA
DI PROVINCIA
A Arístides Vega Chapú,
Heriberto Hernández Medina,
Joaquín Cabeza de León.
Madre poesia, non permettere
che questo fumo di stracci lo distolga,
gli ippogrifi guardino i loro occhi,
i festoni di velluto
risplendano dei loro colori.
Poesia come madre generatrice di libertà.
Come terra partoriente lacrime e sangue per essere libera espressione, madre che vede ignobili crocifissioni perseguite contro la parola che più di una guerra, incide a fuoco il foglio nell’irreversibile dialetticità di poeti come Viera.
Esule poeta e destinato ad “illacrimata sepoltura”, Viera ha scritto versi meno strozzati ed ansimanti di questi, anzi parte della sua produzione si snoda ampia e piena di nostalgia per la sua Cuba che canta come donna-natura da amare nella fisicità del contatto, da baciare e scolpire nel cuore.
Non permettere
che certi pappagalli clandestini
dicano le loro parole, non lasciare
che ascoltino le sue.
Volerà l’Ippogrifo a riprendersi il senno
contro il Cerbero che “con tre gole caninamente latra”,
lo seguirà la poesia, paradigma ora di chi lotterà
nelle carceri, sotto tortura, falsamente suicidato,
certamente lasciato morire più di dolore che di fame.
Proteggilo dai cani cerberi e dai guardiani
che hanno sempre pronte celle e catene.
Liberalo dai calabroni che spiano le sue carte.
La preghiera si sfinisce in un susseguirsi implorante di protezione ed aiuto. Che almeno si possa far conoscere a chi vola alto, quel fiore che solo agli uomini liberi può essere di consolazione, morbido accenno di natura che rinascerà.
Nascondilo, Madre, sotto quel petalo che Loro non conoscono.
(23 luglio 1989)
PERSO, SEPPELLITO IN FRETTA
A mio figlio Luis
Ho perso il buon umore
ho perso la pace del mattino, delle sere.
I miei denti rifuggono il sorriso.
Le mie notti sono amare, i folletti mi assaltano.
Soffro l’angoscia del domani e del passato.
Il tempo perde la diacronia e non prospetta futuro.
Persino l’immagine torna rifranta nell’angoscia di un sé disperso in uno spazio di specchi convessi. Si sbriciolano immagini da caleidoscopi tanto veloci da impazzire.
Non voglio vedere nessuno, temo di vedere me stesso.
Sono acido come un animale tra specchi convessi.
Detesto l’erba, la luce, le margherite.
Mi fa male il mio passato e tutto il passato come una piaga
che si apre, che si apre.
Tutto ciò che è stato, è piaga riaperta costantemente in un lago di bile che scorre fino a diventare pozzo dove scomparire con un sogno che ha devastato anima e corpo.
Ho perso il buon umore,
sono acido come la bile
sono una pozza di bile, affogo nella bile.
Muoio come un cane che si morde,
muoio e muoio seppellito in fretta.
E
chi ne ha colpa
si sveglia ridendo.
(27 aprile 1991)
Al dolore fanno da orrido “contro-altare” l’oppressione e la bugia.
NEL FRATTEMPO
A Cintio Vitier
Dovranno morire i buoni poeti.
Dovranno morire i poeti eccellenti.
Persino i grandiosi, persino
i fondatori di durevoli scuole, tendenze, sistemi
dovranno morire.
In una presa di coscienza lucida e senza scampo il poeta arriva alla deriva di un possibile futuro segnato dalla morte della parola.
Perseguitata essa si è estinta, perderà forza anche nei poeti, naufragherà la potenza dei versi dei noti e meno noti in un silenzio di cui avvertiremo il dolore.
Dovranno morire anche i poeti improvvisati
e persino chi è accusato di essere un cattivo poeta.
Nel frattempo, la polvere aspetta, tesse
l’ultima parola.
(11 luglio 1992)
L’ultima parola resta sulle strade polverose, nella polvere delle spiagge per essere cancellata e forse riscritta in un’altra storia.
NO
A Alexis Castañeda
Non chiedergli di curare le tue ferite.
Di grande intensità e commozione, la lirica si impoverisce di versi che man mano decrescono.
Essi non si prostituiscono alla fragilità del dolore che non deve essere più dichiarato, come ultimo gesto di dignità.
L’immagine dei boschi perduti segna con affanno la trascorsa gioventù di vita, promesse e armonia.
Non mostrare il piede che zoppica
l’aria che ti manca, il denaro che non possiedi,
i boschi che hai perduto.
Non andare a chiedere “per favore…non posso più…guarda … guarda questo fianco da cui mi dissanguo”.
Non mostrare con i tuoi occhi assenti la stele assente
né il dolore di ogni giorno e di ogni anno
in cui ti sei logorato.
Si preghi anche senza stele dove si voglia, ma non si chieda dove siano la tomba, la bara, la vita che hanno rubato, occhi assenti al dolore e alla pietà possono solo dire “NO”.
Non gli chiedere il sangue che ti deve,
clemenza,
tregua,
bandiera bianca.
No.
(luglio 1992)
Patrizia Garofalo
legge Félix Luis Viera tradotto da Gordiano Lupi