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Alberto Figliolia. La busta gialla di Gualtiero Morpurgo
08 Marzo 2010
   

«È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo arianonordico» (da La difesa della razza, anno I, n° 1, agosto 1938).

La vergogna delle leggi razziali del 1938 è incancellabile. Promulgate dal regime fascista e sottoscritte dalla monarchia rappresentano un'onta per la storia della nostra nazione e per l'umanità; rivolte essenzialmente contro gli ebrei, esse furono feroci, odiose, stupide, volgari, trasudanti ottusità, ignominiose, letteralmente indicibili, vilissime, e si potrebbe continuare con un'aggettivazione infinita. L'anno è, per l'appunto, il 1938, due anni prima dell'entrata in guerra dell'Italia a fianco della Germania nazista.

Gualtiero Morpurgo era un giovane ingegnere ebreo nativo di Ancona e impiegato ai Cantieri Navali di Genova che si trova nella tempesta della discriminazione scatenata dalle suddette leggi. Inizia così una nuova vita per il giovane professionista: un'esistenza di incertezze, di dubbi, di inedia, il marchio dell'impotenza nelle fibre dell'anima. Una vita-non vita.

Classe 1913, Gualtiero Morpurgo è stato anche giornalista, nonché violinista, arrivando a dirigere l'Ufficio ANSA di Santiago del Cile. La prima parte della sua storia – sarebbe poi stato costretto a espatriare in Svizzera - rivive ne La busta gialla (Mursia, 2009, pagine 100, euro 9,00), le sue vicissitudini intrecciandosi irreparabilmente con quelle dell'Italia avviata a rovina, distruzione e macerie, nella folle corsa bellica innescata da Mussolini. In una busta gialla, quella del titolo, recapitatagli vi era una missiva che lo radiava pure dal Regio Esercito. Non più cittadino, ma suddito. Anzi, più in basso ancora che un suddito.

Gualtiero diviene così un uomo senza diritti, un senza terra e senza patria, condannato a guardarsi eternamente le spalle, fra il pericolo della delazione e una costellazione di disillusioni, nel cuore la paura del topo in gabbia, in un presente amaro e con l'idea di un futuro che non si sa come né perché. La situazione precipita sempre più, ma nessuno ne può veramente trarre giovamento: il Duce viene arrestato, quindi liberato dai tedeschi, nasce la Repubblica di Salò e altre scelleratezze si commetteranno a breve. Mentre l'Olocausto matura selvaggio nell'indifferenza.

Tanti in quei tristi e famigerati tempi e luoghi furono meno fortunati del giovane ingegnere che questa storia avrebbe poi potuto raccontare. Ci sarà riscatto contro il ricatto? E liberazione dalla cattività in un mondo d'ostilità e angoscia? Noi sappiamo adesso che per Gualtiero - ingegnere, musicista, giornalista e scrittore – sarebbe stato così.

Anche se ogni mattina, qui e ora, ci svegliamo in un mondo “apparentemente” sempre più xenofobo, il razzismo, se non conclamato, sempre più strisciante nelle coscienze e un nuovo spietato e gelatinoso autoritarismo che bussa alle porte. Un rugginoso secchio che cala in oscuri pozzi per trarne melma e merda. I sogni notturni possono mutare in incubi diurni (e diuturni).

Leggiamo, impariamo, insegniamo e condividiamo per sconfiggere i neri fantasmi dell'ignoranza, quelli che diedero la stura a dittatura e alle famigerate leggi razziali. I mostri possono tornare. I nostri figli meritano una diversa eredità culturale.

 

Alberto Figliolia


 
 
 
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