Il suo sempre vivo desiderio di evadere dalla quotidianità nasceva in parte dal disagio che sentiva nei confronti di Vienna, città amata-odiata, dove per ben 47 anni abitò in Berggasse 19, nel IX distretto (oggi sede del Museo Freud); la capitale danubiana gli riusciva «ripugnante» eppure non ebbe mai la forza di trasferirsi altrove, finché non ve lo costrinsero i nazisti. Ma per riuscire a sopportare Vienna, Freud se ne allontanava ogni anno per quasi due mesi.
A partire dal 1895 la meta più frequente dei suoi viaggi fu l’Italia, cosa che non meraviglia affatto se si pensa a quanto egli assimilasse il lavoro dell’analista a quello dell’archeologo. Per di più, allora, i prezzi in Italia erano ridicoli per un medico di successo come lui, al quale bastava una giornata di lavoro per permettersi quindici giorni di vacanza nella nostra penisola, concedendosi alberghi e ristoranti di buon livello. In tarda estate, dunque, Freud lasciava la moglie e i suoi sei figli e si recava al sud, sempre con un programma molto intenso, ma anche con una sorta di diffidenza verso gli Italiani. Fin dal primo impatto con Venezia, più che una città una «strana fiaba», Freud, un po’ taccagno, si sentì minacciato dai veneziani truffaldini che gonfiavano i prezzi, anche se si godette le soste al Caffè Quadri e le nuotate al Lido.
Nel 896 Freud si spinse ancora un po’ più a sud, apprezzando il buon cibo di Bologna, e la capacità di Ravenna, «un buco miserando», di ovviare alle sue brutture con i suoi stupendi mosaici e la sua alta qualità gastronomica. A Firenze, un vero «incanto», dove si consumavano «pasti magnifici» e «si nuota[va] nell’arte», tutto gli sembrò «meraviglioso», meno «la gente comune […] sfacciata e imbrogliona».
Impressioni di assoluto entusiasmo costellarono anche il viaggio in Toscana del 1897, dove a indigestioni d’arte Freud alternò il piacere dei bagni in mare, dell’ottimo vino e del cibo stupendo e a buon mercato. In una lettera alla moglie magnificò soprattutto la frutta - «di tale favolosa bontà, grosse pere, fichi, uva bianca e nera» - che faceva somigliare l’Italia a un vero paradiso terrestre.
L’anno seguente, a Milano Freud ammirò il Cenacolo di Leonardo, ma rimase sconvolto per «il baccano infernale» che regnava in città. Nel 1900 invece, il Lago di Garda con «i fichi, i castani, l’alloro e i cipressi» gli sembrò, di nuovo, come una sorta di Eden.
La vera scoperta dell’Italia si realizzò però per Freud nel 1901, quando riuscì a trovare il coraggio di spingersi finalmente fino a Roma. Tutto a Roma gli piacque senza riserve: il clima mite, la luce, i profumi. Durante le giornate a Roma, dove subito si ripromise di tornare, Freud visse come in preda a un’ubriacatura di stupore per l’arte e il paesaggio, affiancati dai piaceri della buona tavola. Non c’è angolo della città che non visitò: da S. Petro alla Sistina e alle stanze di Raffaello, dalla via Appia al Gianicolo, dal Pantheon a S. Pietro in Vincoli, dove vide per la prima volta il Mosè di Michelangelo, fonte di emozioni delle quali continuò a nutrirsi per anni.
L’anno dopo Freud si spinse ancora oltre; la gente di Napoli, «orrenda, spesso rivoltante», lo indusse a spostarsi a Sorrento, che gli si rivelò come la quintessenza della «terra dove fioriscono i limoni», per citare una nota poesia di Goethe. Ma poiché, sempre come gli aveva insegnato Goethe (questa volta con Le affinità elettive), nessuno «passeggia impunito sotto le palme», il clima era insopportabilmente caldo e rendeva difficile la vita, o meglio il «lavoro» del turista, che si concesse molti bagni in mare e molte ore di dolce torpore.
Freud tornò di nuovo in Italia nell’estate del 1905: il Lago di Como fu per lui come una benedizione per lo spirito, anche grazie allo stupendo alloggio nella Villa Serbelloni di Bellagio. Da lì procedette per Porlezza, e dal Lago di Lugano passò al Lago Maggiore con le magnifiche Pallanza e Stresa e con le famose isole borromee. Poi proseguì per Genova e per Rapallo, dove, come scrisse in una lettera al fratello, «il sole celeste e il mare divino – Apollo e Posidone – […], ostili a ogni attività», lo indussero a naufragare «totalmente nella dolce vita».
Il soggiorno nella città eterna del 1907 fu per Freud, come sempre, un momento insieme di studio e di svago. Freud visse le giornate romane in uno stato di spasmodica tensione: «non si ha mai tempo a Roma, sempre troppo da fare». Benché fosse di indole assai poco musicale, Freud si concesse persino una serata al Teatro Quirino dove assistette a una rappresentazione un po’ smargiassa della Carmen di Bizet. Nel complesso fu talmente soddisfatto di Roma da rammaricarsi: «Peccato che non si possa vivere sempre qui».
Durante il viaggio estivo del 1910, Roma gli si riconfermò «un prodigio», mentre Napoli gli offrì «di nuovo uno spettacolo infernale»; da lì s’imbarcò per la Sicilia, «la parte più bella dell’Italia», un’autentica «dovizia di piacevolezze», capace di esaltare la sua naturale predisposizione all’edonismo.
Analoghe gradevoli sensazioni caratterizzarono anche il viaggio a Roma nel 1913. Poi ci fu una cesura, che coincise con la guerra e una serie di dispiaceri personali. Freud aveva perso una figlia e un nipotino e sapeva ormai di essere malato di cancro, quando, nel settembre del 1923, partì per l’ultima volta per Roma insieme alla figlia prediletta, Anna. La città si era fatta negli anni «più cara e più rumorosa», ma era rimasta la somma di magnificenze di sempre.
Si chiuse così il capitolo italiano di Freud, che dopo 1901 si era recato a Roma altre sei volte come un pellegrino e ogni volta aveva ammirato con crescente trasporto le opere d’arte della città, senza dimenticare mai di andare a rendere omaggio al possente Mosè di Micheangelo, tanto diverso dal Mosè iracondo dell’Antico Testamento, al quale dedicò, nel 1914, uno dei suoi più noti e meno “scientifici” scritti sull’arte.
Freud amò l’Italia soprattutto come un giardino di delizie e un museo a cielo aperto e privilegiò decisamente la Roma classica rispetto a quella barocca, cui invece sarebbe andata la preferenza di Lacan. È sorprendente però quanto poco gli interessassero gli italiani, che riscuotevano il suo apprezzamento solo come osti e cuochi, dalla cui inclinazione all’imbroglio, tuttavia, riteneva opportuno sempre stare in guardia.
Sigmund Freud, Il nostro cuore volge a sud. Lettere di viaggio. Soprattutto dall’Italia (1895-1923). A cura di Christfried Tögel con la collaborazione di Miachael Molnar. Presentazione di Antonio Gnoli e Franco Volpi. Traduzione di Gabriella Rovagnati. Bompiani, Milano 2003