“vi disprezzo compagni d’armi
vi disprezzo perché
potremmo essere compagni d’intenti”
«L’essere si sorveglia e bada alla sua sussistenza individuale ed intanto, tenta uno slancio comprensivo della sua essenza in cerca di individuazione» (dalla prefazione alla silloge del poeta Alberto Mori).
I versi che riporto in apertura alla recensione sono a mio avviso sicuramente quelli che meglio avviano il lettore alla conoscenza di un poeta come Dimitry Rufolo, sempre teso ad un’armonia di attimi di convergenza con un mondo che in modo vacuo allontana tutto ciò che disvelerebbe il senso più intimo e confidenziale delle cose. La parola di questo autore si realizza nella ricerca di sé negli altri, negli spazi isolati o dispersi al vento, in fotogrammi che avvicinati potrebbero venire a costruire un comune percorso d’intenti. Il termine “diario” viene ad indicare il memoriale dell’esistere e la configurazione diaristica appare il luogo privilegiato per inclinare a una confidenza di desideri e realtà che nelle pagine narrate di una giornata anche sia pur essa “infedele”, si armonizzano proprio nella sinalefe del titolo “ombrallegra”, dove lo scurire della sera e la speranza di albe nuove si avvicendano e si fondono nell’intento di vivere per raccordo sintonico e sinfonico con il vero. «Riflessi e luci/ come briciole di pane/ da seguire/ da non perdere mai/ pena lo smarrimento». Funambolo in oscillazione tra realtà e sogno Rufolo segna e percorre il filo sottile della vita cantando alla luna e «da lassù manda un bacio alla terra», menestrello di una corte, il cui re è un nomade che non nega l’oasi e che pur nello sconquasso del vento, del frigo vuoto, di troppe bottiglie, di altre porte così recita: «lacrima di seppia/ su sfondo notturno», che suggestivamente tanto rimanda ad un dagherrotipo conservato gelosamente nell’album di famiglia e nella terra del cuore.
Poesia originale, quella di Rufolo, che si legge in un vagheggiamento non di desideri ma di realtà congiungibili ad essi, e che viene a connotare un’ inclinazione che non conosce vati o albatri dilaniati dal senso dell’esistere, ma un intrattenitore, scommessa costante con la quotidianità. La notte insiste ogni sera e porta sogni, ricordi, dolori, «allora fammi bere questo caffè/ nero di notte/ zuccherato di stelle e di luna/ fammi ascoltare/ le mille richieste che mi farà/ mi terrà sveglio e impreparato/ ma di questo film/ non mi stanco mai/ …colore elimina colore/ e la sagoma resta pensiero/ quadro di un bianco infinito/ su tela lisa dal tempo». Ma sul non-colore Rufolo ogni giorno riscrive perché la parola non si consumi e non invecchi ma ritrovi, nell’urgere scandito dal tempo, la sua sostanzialità, e riduca lo spazio dell’impossibile. Predire il futuro, così come scrive nella lirica “l’indovina”, è aprire il tempo all’attesa di trasalimenti, di oscurità che nel caso del soggetto dell’esperienza dell’autore in questione sono depistaggi alla ricerca. Muore ogni sera il poeta e replicherà il giorno dopo nel teatro shakespeariano delle vanità, da cui sfugge in una poesia lirica che gli permetta un volo alto dentro l’esistenza: «lasciamo perdere la poesia/ e l’eroismo facile della perdizione./ …alzate gli occhi dal libro/ e guardate senza filtri/ la realtà comune/ siete dentro un mare di anime/ e non tutte sanno nuotare./ …Parlami di giornate fredde/ e di chi vende la giacca calda/ nel giorno di Natale/ non è Geppetto/ non è una favola/ …serve soltanto a guardare il mondo/ senza voglia di divorarlo». E lo zoom avvicina il frigorifero pieno, la solitudine agiata che consente dannatamente di erigere paratie di gesti consueti fino allo scheletro del sé che appare nel brindisi che conclude la lirica: «si alzano calici pieni/ dinnanzi ad immagini vuote».
Bene scrive nella prefazione il poeta Alberto Mori che il vivere richiede un esercizio giornaliero come una ginnastica dell’anima, circostanza che si rivela in Rufolo ogni volta foriera di voli nel consueto mai giornaliero ma ritrovato e incessantemente da riconquistare senza per questo disconoscere la fatica dell’esistenza. Poeta fedele alla vita, egli scrive: «quel rimbombo mi sveglia/ e mi ritrovo con tutti pensieri da riordinare/ ma per fortuna/ trovo anche pagine che pensavo perdute»; «tendo tutte le trappole/ per catturarne una qualsiasi/ per imprigionarla su un foglio di carta/ rendendola viva e immortale/ calda e disponibile./ Così ogni notte calo le reti/ ed aspetto». E Rufolo attende di ricucire la parola, ritrovarla, ripescarla, reiventarla, trovarla viva e colorata… e offrirla anche alla sua maggiore sofferenza: la mancata comunicazione d’intenti ma solo d’arme. La preponderanza di infingimenti, strutture, falsi amori, amicizie mancate che scatenano silenziosi baratri «noi falene, noi ciechi volatori/ che troppo ci avviciniamo alla luce/ e troppo abbiamo da perdere/ nel farlo» è resa in versi incisivi e icastici e segnano la fine della mia lettura e ancora un’altra volta è al poeta, la parola:
«Io resto/ con quella penna nella zampa/ e la intingo nel nero di notte/ ritraendo le sagome/ di due gatti randagi/ nel cerchio bianco della luna/ nel mio quadrante di cielo/ continuo a brillare/ la mia intermittenza / è un segnale di soccorso/ che da sempre lancio nel vuoto».
Dimitry Rufolo è: autodidatta, operaio, barista, poeta di strada, musicista girovago, musicista stanziale, spettatore, attore e uomo comune.
Ha pubblicato tra il 2007 e il 2008 la raccolta pensieri a banda larga ottenendo numerosi consensi da stampa specializzata e critica letteraria. Realizza reading e performance poetiche.
È nato a Parma il 22 Luglio del 1967.
Patrizia Garofalo
Dimitry Rufolo
Il diario di Ombrallegra
Zona, 2009, pagg. 80, € 10,00