Molto sarcasmo, ma anche molta malinconia: questi gli ingredienti della messinscena del copione di Thomas Bernhard Prima della pensione, in cartellone (dal 4 al 21 maggio 2006) al Teatro i di Milano, il palcoscenico indipendente della Conca dei Navigli (Via Gaudenzio Ferrari, 11), tornato da qualche tempo in attività a latere dei grandi circuiti ufficiali della cultura teatrale meneghina.
Il testo, scritto dal caustico autore austriaco nel 1979, pur essendo allora mirato specificamente a smascherare le responsabilità pregresse di un preciso personaggio politico - Hans Filbinger, allora Primo Ministro del Land del Baden Württenberg - , dimostra, a oltre un quarto di secolo di distanza tutta la sua attualità e il suo valore paradigmatico oltre e fuori dal contesto geopolitico da cui allora aveva tratto ispirazione.
Di fronte agli spettatori - si tratta di poche file di poltrone per novanta posti a sedere - quattro grandi teli color beige sostituiscono il sipario. Quando lo spettacolo ha inizio si sente, amplificato dai microfoni, il dialogo fra Vera e Clara, le due sorelle di Rudolf Höller (che in tedesco suggerisce una precisa assonanza con Hölle, ossia “inferno”), magistrato di prestigio di una innominata città tedesca, che sta per rientrare a casa per festeggiare, come ogni sette ottobre dalla fine della guerra, il compleanno di Himmler nell’ “intimità” della sua cerchia famigliare, ossia in maniera del tutto clandestina. Ex direttore di un campo di sterminio nazista, nonostante la sua reintegrazione nella “migliore” società della Germania Occidentale postbellica, Höller ha mantenuta viva la sua idolatrante venerazione per l’allora capo delle SS e per il mondo che questi rappresenta.
Inizialmente, come si diceva, le due donne non si vedono. In scena, davanti al sipario, entra solo la piccola Olga (Francesca Grolla), una ragazzina sordomuta affidata alle cure degli Höller, che scruta e percepisce la perversione di quel trio di fratelli, ma data la sua menomazione fisica non può parlarne con nessuno.
Coi suoi ammiccamenti di testimone esterno e muto lascia intendere di andar cercando la connivenza del pubblico; la sua mimica e i teli del sipario disposti a forma concava che tocca a lei gestire, segnalano che dietro quella sottile cortina di stoffa ha luogo la rappresentazione di una realtà distorta e abnorme. In effetti, quando Olga apre il sipario, ci si trova di fronte a una sorta di gabbia di plexiglas, anch’essa disposta in maniera asimmetrica rispetto alle poltrone. Ecco lo spazio in cui si svolge la vicenda, l’appartamento degli Höller, uno dei molti interni asfissianti e claustrofobici del teatro di Bernhard, che, più che luoghi dell’abitare, sono camere della tortura truccate da buon salotto o tinello borghese, teatro di relazioni parentali basate su un’estenuante, reciproca vessazione. La regia di Renzo Martinelli e la recitazione isterica e straniante dei tre bravi attori - Federica Fracassi (Vera), Elena Russo Arman (Clara) e Alessandro Genovesi (Rudolf) - sottolineano l’emblematicità di una convivenza insulsa e coatta, dove a dominare sono le rivalità e l’odio. Incapaci di una costruttiva proiezione all’esterno, Vera e Rudolf vivono il loro incesto come una sorta di autarchia erotica, costringendo Clara, condannata da un incidente su una sedia a rotelle, a subire con disgusto la loro anomala relazione. Ma la ripugnanza della paralitica nei confronti dei fratelli ha anche ragioni politiche, in quanto Clara, ex militante socialista, aborre il rituale che ogni anno si ripete in omaggio a Himmler, festa durante la quale Rudolf torna a indossare la sua divisa nazista, mentre Vera, per compiacerlo, si mette in abito da sera. Questa volta però l’anniversario, l’ultimo celebrato prima del pensionamento di Höller, si conclude in modo tragico. Dopo abbondanti libagioni e un reciproco gioco al massacro, il magistrato, colto da infarto, si accascia sulla tavolo sontuosamente imbandita. Gli spettatori, tuttavia, non vedono il momento finale di questo banchetto letale e ne vengono a conoscenza solo attraverso le parole concitate di Vera che si affanna inutilmente a chiamare un medico. Olga provvede infatti a chiudere il sipario prima del decesso di Rudolf. Poi, quasi a voler alleggerire la situazione e restituire alla tetraggine del finale la consapevolezza dell’artificiosità, la ragazzina sale su un trapezio - segno del gran circo del mondo - e, dando le spalle al pubblico, inizia a dondolarsi, salendo sempre più in alto finché le luci si spengono. Un bello spettacolo, discreto, che a tratti potrebbe forse cedere un po’ di più alla dimensione giocosa sempre prevista da Bernhard nei suoi copioni. Interessante anche la scelta di attori trentenni, e quindi lontanissimi dalla pensione, per un testo che si per sé richiederebbe interpreti anziani. In effetti, i personaggi di Bernhard sono sì alla fine della vita, ma sono, a suo avviso, anche esponenti di una generazione (quella dei contemporanei dello scrittore, nato nel 1931 e morto nel 1989) che non è stata capace mai di crescere - i tre fratelli del testo scongiurano in continuazione il fantasma di “papà -, che vive solo di ricordi senza essere stata in grado di scendere a patti con il passato, e che, nel suo parassitismo, resta condannata alla sterilità.
Gabriella Rovagnati