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Guido Hauser. Corona come Creonte, ma quale Antigone a rimboccarci il lenzuolo?
01 Febbraio 2010
   

“Matrix”, Canale 5. Ieri sera era presente in studio Fabrizio Corona. O forse il suo intervento era registrato, non mi è del tutto chiaro, ho acceso il televisore a trasmissione già inoltrata. Nemmeno so chi sia l’attuale conduttore che ha sostituito Mentana alla guida del programma. L’orizzonte critico del mio intervento vuole dunque collocarsi a questo livello. Di pura manifestazione sensibile, evidenza palpabile.

Abbiamo così un giovane uomo piuttosto piacente, curato, elegante. Un’eleganza trasandata e quasi involontaria, quale è oggi diventata l’eleganza. Stava accovacciato su uno sgabello alto simile a quello di una vecchia falciatrice, il giovane uomo che cerca nervosamente di rendere conto a un intervistatore - assai ben disposto nei suoi confronti - delle azioni ma soprattutto dei retroscena di ciò per cui è stato incriminato. E per cui ha già scontato quasi cento giorni di carcere preventivo, dettaglio non privo di importanza.

Il fatto nudo e crudo è dunque questo. Fabrizio Corona offriva a personaggi pubblici, immortalati in momenti di varia e privata intimità, l’esclusiva di quegli scatti (ora non esistono più i negativi) a fronte di un consistente conguaglio economico. E fin qui i fatti sono fatti, e anche noti. I quali fatti si configurerebbero come reato d'estorsione, previsto dal codice penale, solo se fossero presenti i due elementi congiunti della minaccia, che si accompagni a una richiesta, e della sproporzione economica con l’oggetto, parametro quanto mai ambiguo.

La difesa di Fabrizio Corona è sempre stata nei seguenti termini: non vi è mai stata una minaccia nei confronti delle “vittime”, riprese a loro insaputa dai fotografi a cui si affidava. E con ciò viene liquidato il primo pilastro che tiene in piedi il castello teorico dell'estorsione. Relativamente al secondo punto, Corona assicura che la richiesta economica era commisurata al valore di mercato di quelle immagini, se le stesse fossero state offerte a riviste specializzate in gossip. Egli insomma rivendeva le immagini ai loro soggetti, come fanno sul lungo mare a Rimini o al Circo Americano, schiaffandoti un leoncino in braccio, le rivendeva ad un prezzo “congruo”.

Io, Guido Hauser, lo affermo dunque senza tanti giri di parole. Credo nella versione di Fabrizio Corona. Non solo per quanto riguarda la ricostruzione esplicita dell'intera vicenda, ma anche in riferimento al contesto economico e sociale entro cui è necessario collocarla per poter essere giudicata con merito. Per tale ragione reputo i cento giorni di carcere preventivo una grave negligenza giudiziaria.

Detto ciò, non potrei essere più distante dal personaggio Corona. E non mi sto riferendo alla sua consueta tracotanza da bulletto di periferia. Questi sono aspetti secondari, che in una certa misura perfino riesco ad apprezzare - anche solo per formazione reattiva allo stomachevole conformismo, Corona non mi risulta per nulla ostile. La questione sta piuttosto nella legittimità pubblica di comportamenti che, dentro ciò che potremmo chiamare un tacito galateo dell’umano, non possono non apparire disgustosi. Per intenderci: Antigone non ha mai contestato la legge pubblica di Creonte, per quanto intimamente le fosse perfettamente estranea.

Allo stesso modo io trovo che il contesto giuridico in cui i fatti si sono svolti, senz’altro vede Fabrizio Corona nella parte della vittima; da un punto di vista tecnico legale i suoi non erano oggettivamente ricatti. Piuttosto delle offerte “commerciali” a interlocutori eccentrici alle consuetudini del mercato, diciamo così.

L’elemento di ripugnanza non va dunque ricercato all’interno dei confini di una legalità codificata - né tanto meno codificabile, temo - quanto in quella distanza incolmabile tra ordinamento pubblico e codici morali. O se preferiamo legge del libroe legge cardiaca, declinando nuovamente nella prospettiva di Antigone.

In un’ottica emozionale noi corrispondiamo infatti con la nostra immagine manifesta. Per alcune popolazioni la stessa ripresa cine-fotografica rappresenta un’intrusione all’interno dei sacri confini della soggettività, e con vigore provano ad opporsi agli scatti dei turisti, o agli insinuanti stratagemmi dei reporter. In determinati contesti antropologici si parla addirittura di “furto d’anima”. Senza addentrarci nella questione teologica su dove sia riposta l’anima, né se questa sia realmente sostanza, ho così deciso di schierarmi al fianco di una posizione decisamente tradizionale: fotografare è rompere i coglioni, sempre e comunque.

Essere immortalati una fotografia, come dice anche l’etimo del termine, significa infatti vedere una parte di noi sottratta alla morte, al fiume provvisorio e labile dell’apparire. Tanto che io come uomo, e cioè come “cadavere potenziale”, rivendico il diritto alla mortalità di ogni mia parte. A meno che sia io stesso l’artefice di una salvazione immaginale, cioè di una strategia della prosecuzione. Attraverso i miei testi, ad esempio. O affidando la mia re-esistenza alla memoria di quanto di buono e degno io cerchi di fare in questa vita.

Non sto dicendo, attenzione, che così è. Ma che molti uomini per bene avvertono questa stessa sensazione attraverso il loro cuore. Un senso di impotente spoliazione, che si accompagna alla spettacolarizzazione proditoria della propria immagine.

La mente ci dice però che Fabrizio Corona è innocente. E di questo non c’è dubbio, se le cose stanno come ora tutto sembra far credere. Ma ciò non l’assolve da un’onta umana persino più grave, che consiste appunto nell'aver sottratto alle persone il diritto alla peribilità dei loro più infimi gesti. Per vedersi poi offerto quello stesso diritto – “naturale” – per un pugno di denari. Al di là di una stracca recita dentro una prossemica da guappo, ecco dunque cosa ci fa probabilmente incazzare. La richiesta di qualcosa che nel profondo avvertiamo come dovuta.

Provando ad articolare meglio concettualmente, ciò comprende anche il diritto sull'ostensibilità nostro corpo - quando si parla di diritto alla privacysi parla infatti di questo: sottrarre il corpo ad un'esibizione arbitraria. Quindi alla titolarità di una visione su noi stessi, alla formulazione di una memoria testamentale di quel che siamo stati, compreso il diritto all'oblio. Questioni e diritti decisivi, come ben si vede.

Eppure esiste una situazione analoga, ma ben più grave, che non suscita nessun clamore e nessuna indignazione. Probabilmente per via dell’assuefazione con cui l’osserviamo. Mi riferisco al sentimento altrettanto naturale di pietas, che all’interno della nostra tradizione culturale ci appare doveroso nei confronti di chi soffre. Pensiamo allora a una persona che si rechi in un ospedale pubblico per un sospetto e serio problema di salute. Deve probabilmente attendere alcuni mesi prima di essere visitata. Ma se decide di sottoporsi a una visita privata dallo stesso medico che avrebbe ritrovato mesi dopo, può essere ricevuta entro una manciata di ore. Tutto in regola, tutto conforme a leggi e postille del nostro diritto civile e penale.

Però Antigone ugualmente scalpita, e muove il suo indice contro il petto di Creonte. Perché in fin dei conti Fabrizio Corona si limitava a richiedere soldi a persone che, innanzitutto, ne disponevano, soldi ed agio in gran quantità. Quindi lo sfondo delle sue azioni era tutt’al più grottesco, un patetico teatrino tra mezze calzette che sgomitano per avere un posto in prima fila sul Titanic. Egli spettacolarizzava la salma di chi già si era immolato sopra alla pira dell’evidenza più corriva. Una commedia delle parti, insomma. Mentre nella sanità negata siamo di fronte a una scena tragica, drammatica non solo nella forme, nella delicatezza morale dei rapporti.

Ma perché, allora, i magistrati non decidono di arrestare preventivamente anche i primari delle cliniche convenzionate, i medici che richiedono oltre trecento euro per una visita privata. Anche qui siamo al cospetto di una discordanza tra legge del cuoree legge della città. Il professor Cesare Maffei, ad esempio. Primario di Psicologia clinica all’ospedale San Raffaele di Milano. Anni fa mi richiese oltre 250 euro per una chiacchierata di una cinquantina di minuti.

È giusto, è sbagliato?

Io non pretendo che il professor Maffei venga perseguito per questo, non è davvero il caso. Ma ciò che tengo a ribadire è che, da un punto di vista squisitamente giuridico, siamo di fronte a un caso perfettamente assimilabile a quello che vede coinvolto Fabrizio Corona. Entrambi richiedono alle persone un compenso spropositato per qualcosa che, intimamente, nelle corde più intime del nostro sentire, ci appare come naturalmente legittimo: il diritto a vivere oppure a morire.

Ma forse questa disparità di giudizio è da mettere in relazione al fatto che il professor Maffei non ha il corpo cosparso dai tatuaggi, non impreca e spintona ma soprattutto non sta con Belen, sbaciucchiandola sulla prua di una Yacht che separa in due le onde come noci di cocco, una schiumina bianca e soffice a poppavia del jack. È una persona molto a modo, cordiale ed educata. Il professor Maffei. Educata e cordiale come lo era di certo anche Creonte. Un altro che pensava che il giustocorrisponde con la giustizia.

Noi abbiamo però deciso di stare dalla parte avversa a Creonte: contro Creonte, contro Corona ma pure contro Maffei. E contro tutti quelli che non solo non si prendono cura di noi, come pietà vorrebbe, ma nemmeno ci lasciano morire in santa pace. Con l’unica consolazione di Antigone, a rimboccarci il lenzuolo.

 

Guido Hauser


 
 
 
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