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Augusto Ancillotti. I rischi della comunicazione emotiva e coinvolgente 
Una lezione popolarWeb che prende spunto dal 'Battisti by Panella' trattato per Tf da Diodati
21 Gennaio 2010
   

Ho letto le considerazioni delle varie parti in causa sul valore o meno dei testi di Pasquale Panella legati all’ultima produzione di Lucio Battisti, e durante la lettura ho spesso percepito la carenza di una “cultura linguistica” nei partecipanti al dibattito. In genere si argomentava su basi “impressionistiche”, senza mai tener conto di come funziona l’uso della lingua, e soprattutto l’uso della lingua per produrre un testo “poetico” (in senso jacobsoniano). E spesso trapelava un implicito riferimento al principio “ex auctoritate”, come se fosse pensabile ai giorni nostri utilizzare un tale principio per decidere qualcosa... E alla fine il risultato, mi sembra, si riduce al fatto che il “linguaggio poetico” resta un mistero per il lettore.

Non che si possano sostituire alle procedure di una disciplina “valutativa” quelle di una disciplina “dell’osservazione”, ma credo fermamente che l’assenza di una visione da linguista in un dibattito che tocca il modo con cui un emittente produce un testo costituisca un fattore di carenza.

 

Una domanda a cui non si risponderà

La domanda che pongo è: Una forma d’arte è una forma di comunicazione? Una domanda che si può ripresentare nella sua formulazione assoluta: Può esserci arte senza comunicazione?

Dico programmaticamente che non risponderò alla domanda.

Lo scopo di questo mio scritto è invece quello di mettere in luce la natura scientifica del processo che chiamiamo “comunicazione”. E una volta chiarita tale natura, ognuno potrà rifarsi la domanda e darsi la risposta che vuole.

Premetto altresì che, mentre si può ritenere soggettiva la nozione a cui rimanda il significante arte, quella di comunicazione non lo è: essa è l’oggetto di studio di un complesso di scienze, tra cui la semiotica, la linguistica, la psicologia, la sociologia, e così via. Come conseguenza, l’approccio scientifico alla comunicazione deve soddisfare i princìpi di tali discipline.

Va anche chiarito che chi non accettasse il fatto che un processo di comunicazione è governato da una serie di princìpi scientifici, si chiamerebbe fuori dalla cultura occidentale in blocco. Padrone di farlo. Ma parlerebbe da quella posizione, e non dalla posizione di un esponente della cultura che bene o male condividiamo nel mondo accademico.

 

Le basi della comunicazione linguistica

Quelle che seguono sono le nozioni elementari che in tutte le Università italiane si insegnano agli studenti del primo anno dei corsi sulla comunicazione.

Per far transitare da un essere umano all’altro dei contenuti mentali, che sono astratti e non percepibili dai sensi, gli uomini, non disponendo della telepatia, sono costretti ad associarli a delle entità fisiche. Se ciò avviene in modo regolare, tra le entità fisiche e quelle astratte a cui sono associate si istituisce quel rapporto arbitrario ma convenzionato che si chiama semiosi. Si ha cioè un'entità fisica A (p. es. la sequenza sonora tavolo) detta significante che “sta per” un'entità mentale B (il valore d’uso di ‘tavolo’ detta significato); la coppia AB si chiama segno. Se lo stesso rapporto arbitrario è adottato da più utenti, uno di essi può produrre il significante A da cui un altro, attraverso il riconoscimento, può ricavare il significato relativo B. Si ha così un atto comunicativo tra due utenti, emittente e ricevente: l’emittente ha prodotto A, intendendo segnalare B, ed il ricevente, sentendo A, ha capito appunto B, grazie al riconoscimento del rapporto convenzionale tra A e B.

Su questi fondamenti elementari si basa il fatto che la lingua è un codice, cioè un complesso di relazioni convenzionate tra significanti e significati condivisi dagli utenti. È infatti necessaria la condivisione del codice da parte degli utenti membri della comunità che utilizza quel codice perché si avveri una comunicazione verbale. Detto in modo semplicistico: se sento due cinesi parlare e non conosco il cinese, quello che sento io sono dei rumori, non degli atti di comunicazione, e ciò dipende semplicemente dal fatto che le convenzioni che utilizzano i due cinesi per comunicare mi sono ignote, non sono da me condivise. Lo stesso avviene se io (parlante italiano) associo una sequenza non convenzionata ad un contenuto mentale: il risultato che ottengo è che per gli altri ho prodotto una serie di rumori senza senso. Ma io sono proprietario della lingua che mi è stata consegnata dalle generazioni precedenti. O no? Non ho forse la libertà di usarla per le mie creazioni?

In verità la libertà d’uso della lingua si muove tra due estremi: da una parte il rispetto delle convenzioni istituzionalizzate in una comunità di utenti, dall’altra il bisogno di rappresentare in modo unico, personale, nuovo, il mio contenuto. Ma il modo unico e personale che potrò utilizzare non potrà superare i limiti della riconoscibilità basata sulle convenzioni linguistiche entro cui si muove la comunicazione della comunità di appartenenza, pena la non realizzazione della comunicazione.

Si deve ricordare infatti che senza la ricostruzione di qualcosa da parte del ricevente, non c’è comunicazione. Ciò che è stato comunicato è sempre e solo ciò che ha rielaborato il ricevente, indipendentemente da quanto avrebbe voluto far passare l’emittente.

Mentre informare significa ‘mettere a disposizione’ di altri un dato, comunicare significa ‘far entrare’ quel dato nella conoscenza altrui. Letteralmente comunicare significa ‘mettere in comune’ qualcosa, e per farlo occorre attivare l’interlocutore: infatti, sia che si tratti di promuovere in lui un’azione, astratta o concreta, sia che si tratti di fargli “costruire” una conoscenza, non esiste comunicazione se l’altro non capisce. E capire significa modificare la propria rete conoscitiva in modo che ogni singolo dato in entrata vi trovi una collocazione accettabile. Infatti una cosa è capita solo se è in relazione ad altre all’interno della rete conoscitiva: se è isolata non ha senso e quindi non esiste.

Forse non tutti sono pronti ad osservare che com-prendere ha la sua base nel prendere, cioè nel ‘far proprio’ l'oggetto. Lo stesso suggerisce l’etimologia del verbo capire, che è il latino capere, cioè ‘prendere’. Tutto ciò implica che la nostra cultura sa da sempre dell'esistenza di un ruolo attivo da parte del soggetto conoscente (se uno capisce vuol dire che prende). La “cosa nuova" che oggi è stata chiarita è che tale ruolo attivo consiste principalmente nella (ri)elaborazione costante del rapporto fra le parti e il tutto, in particolare tra le informazioni in entrata e la rete di conoscenze già attiva nel soggetto: è il modello “costruttivistico” (Bransford).

Si parla di “costruttivismo” in quanto si ritiene che l'utente non apprenda passivamente, ma “costruendo” i dati che interiorizza: interpretando cioè e organizzando attivamente gli impulsi esterni in una costante rielaborazione della totalità conoscitiva. Capire, memorizzare e rievocare consistono sempre di un momento interpretativo che è quello che conferisce un senso al dato, in quanto è elemento strutturale dell’insieme. L'interazione fra stimoli percepiti e sistema di conoscenze e aspettative depositate nella memoria realizza le prime inferenze e le prime interpretazioni già nel momento stesso dell'acquisizione del dato. Secondo questo modello, il processo del conoscere, inteso come continua ricostruzione di schemi, si espande lungo i nodi di una rete che via via si amplia, senza progetto e senza direzioni di sviluppo precostituite: le direzioni sono date di volta in volta dalle domande che il soggetto sa porsi, dalle connessioni che il soggetto costruisce, producendo collegamenti di senso tra gli elementi della nuova conoscenza e le precedenti conoscenze che ne saranno (poco o tanto) ristrutturate e/o rimotivate. Proprio l’evoluzione del percorso teorico del cognitivismo e del costruttivismo in psicologia ha segnato il passaggio da una versione passiva del processo di comunicazione ad una concezione attiva della funzione del ricevente che, perché ci sia comunicazione, deve attuare un complesso atto interpretativo.

Infatti l'introiezione dell'informazione può avvenire secondo tre modalità, tutte comunque attivabili solo dal soggetto conoscente: accrescimento, sintonizzazione, ristrutturazione. L'accrescimento avviene utilizzando schemi preesistenti senza sostanziali modifiche, in quanto riconosciuti adeguati a dare un senso al nuovo dato: si tratta del caso più comune. Si ha invece sintonizzazione quando è necessario modificare uno schema preesistente, nei cui margini di variabilità risulta possibile adattare il nuovo input. Quando poi la situazione non trova riscontro in uno schema preesistente, occorre allora creare uno schema nuovo, la cui presenza va a “ristrutturare” la rete delle conoscenze: è così che per ristrutturazione ci formiamo i “concetti nuovi”, come conseguenza dell'osservazione di una forte discrepanza fra ciò che si presenta e il patrimonio di base.

In ogni caso, per trasferire un dato mentale all’interno della comprensione di un altro essere umano, è necessario indurre quell’essere umano ad attuare un processo di costruzione senza il quale il dato non esisterebbe come dato conosciuto. Anzi, la nozione stessa di dato si fonda sulle relazioni che quell’entità intrattiene con la rete cognitiva della mente entro la quale si trova: al di fuori di quelle relazioni, il dato non esiste. In sintesi: un dato è un dato perché qualcuno lo conosce e lo capisce, non perché esista di per sé.

 

La funzione della comunità parlante

L’immagine usata dal filosofo del linguaggio Geoffrey Samson è quella di una catena di individui che dalla notte dei tempi si tengono per mano l’un l’altro senza interruzione: la lingua è ciò che ha tenuto e tiene insieme tutti quegli individui. La lingua è una proprietà collettiva che viene consegnata in modo più o meno completo a tutti gli individui della collettività che la usa. Ma è una costruzione collettiva, anche se la nostra acculturazione scolastica, basata su ciò che il passato ci consegna in forma scritta, ci ha fatto credere che la lingua sia stata fatta da chi scriveva, cioè in particolare dai letterati, dai poeti, dagli uomini di cultura, e così via. I letterati, i poeti e tutti i grandi del passato, in realtà non hanno fatto altro che elaborare sapientemente le possibilità offerte dal codice-lingua che a loro perveniva, mai superando i limiti delle regole di fondazione di quel codice. E le regole non le hanno “inventate” loro, ma i parlanti “comuni”. Ogni modificazione passa (e, come diceva De Saussure, da episodio di parole diventa parte della langue) solo se è generalizzata dagli utenti, a chiunque si debba quell’innovazione. Il fatto dunque sussiste solo se è accolto dalla comunità: senza l’accoglienza dalla comunità parlante, il fatto non esiste. Ogni istante della storia di ogni lingua dell’umanità è pieno di produzioni particolari, “nuove”, proposte dal singolo; ma pochissime sono quelle che “passano” e che vengono a far parte del sistema-lingua. È indubbio che ci sono individui che hanno un potere di “far passare” le proprie innovazioni più forte di quello di tanti altri individui: ma nessuno detiene quel potere in modo assoluto, perché tutti sono soggetti all’accoglimento della comunità parlante nel suo insieme. E in verità, qualsiasi forma linguistica “marcata” è tale (e non una sequenza di rumori privi di senso) solo perché gli utenti sono in grado di decodificarne un valore.

 

La marcatezza come strumento di coinvolgimento del destinatario

In linguistica si definisce marcata una forma (fonetico-fonologica, lessicale, morfologica, sintattica, pragmatica) probabilisticamente non attesa e linguisticamente non neutra o meno “naturale” (in realtà ciò che nella lingua consideriamo “naturale” è ciò a cui ci ha assuefatto la tradizione da noi ereditata. Ma questo è un capitolo a parte).

Come insegna la pragmalinguistica (che si occupa di studiare il modo con cui gli utenti usano la lingua), la scelta di realizzare forme marcate da parte dell’emittente di solito è determinata dalla volontà di segnalare un proprio atteggiamento a proposito del contenuto formulato o dalla volontà di coinvolgere il ricevente in un’operazione di decodifica particolarmente “partecipata”. È con la marcatezza che si fanno passare le emozioni, i sentimenti, le pulsioni interiori e così via.

Per esempio, è ammesso da tutti gli studiosi che la comunicazione linguistica prevede la tacita osservazione da parte dell’emittente delle cosiddette “massime di Grice” (filosofo del linguaggio statunitense): che l’emittente dica cose che ritiene vere, che quando quantifica lo faccia in modo sostanzialmente corrispondente al dato che ritiene vero, che le sue parole “stiano in argomento”, che le sue parole si riferiscano ad un mondo quale è quello che tutti conosciamo. Date queste premesse, la loro mancata osservanza viene automaticamente interpretata dal decodificatore come “apparente”, con l’effetto di indurlo a cercare sempre nelle parole dell’emittente una via interpretativa per cui le massime siano rispettate. È così, per esempio, che vengono capite le metafore, che su questo piano altro non sono che l’apparente trasgressione alla prima massima di Grice.

Ma ogni volta che il destinatario è indotto ad uno sforzo interpretativo, aumenta proporzionalmente la sua partecipazione alla costruzione del testo e del pari il suo coinvolgimento nei contenuti che riesce ad estrarre dal testo. In questo modo il testo diventa “più suo” e l’efficacia comunicazionale cresce. Come dire: se apparentemente non si rispettano le massime di Grice si ottiene un testo di più difficile interpretazione, ma di maggiore impatto comunicazionale.

Lo stesso avviene per ogni altra forma di marcatezza. Per esempio, ogni qual volta la vera natura dell’atto linguistico (illocutorio o perlocutorio che sia) si offre al ricevente in forma indiretta, cioè in pratica nella veste della cosiddetta implicatura conversazionale (Grice), è richiesto al ricevente un intervento interpretativo forte, con il risultato di coinvolgerlo a fondo nel contenuto dell’enunciato che è costretto a ricavare dalla forma esteriore dell’atto linguistico. L’impatto è quindi alto, sul piano dell’efficacia comunicazionale, anche se a volte particolarmente difficile. 

Lo stesso principio governa la scelta del tipo di testo rispetto alla maggiore o minore esplicitezza utilizzata dall’emittente. Infatti un testo sarà tanto più esplicito e vincolato quanto più l’emittente/autore si atterrà alle regole della non-marcatezza; e sarà invece tanto meno esplicito e tanto meno vincolato quanto più l’emittente/autore approfitterà delle possibilità offerte dalla marcatezza.

Un’importante conseguenza del diverso tasso di vincolo e di esplicitezza insita nei testi è l’effetto che tale gradazione ha sul destinatario. È ovvio che più una scrittura è esplicita e vincolante e meno spazio ha il destinatario per “interpretare”, cioè per “metterci del suo” nell’attività di decodifica del testo; e di contro meno una scrittura è vincolante ed esplicita e più impegnativa sarà l’attività del destinatario per “capire” il testo. Se pensiamo all’effetto che i testi scritti hanno sui lettori, sarà facile capire che la qualità della esplicitezza è inversamente proporzionale alla qualità dell’efficacia comunicazionale: un manuale di uso del computer è quanto di più esplicito e vincolante si può incontrare, ma è estremamente noioso; una poesia è di solito quanto di meno esplicito e vincolante si può leggere, ma è molto più coinvolgente del manuale del computer.

Come dire: se l’autore ha come unico scopo quello di far passare l’informazione il più conforme possibile al proprio pensiero è costretto a redigere un testo perfetto sul piano della esplicitezza e del vincolo, ma probabilmente noioso perché rende passivo il proprio lettore. Se invece l’autore ha come unico scopo quello di coinvolgere emotivamente il destinatario dovrà redigere un testo il meno esplicito possibile, magari rasentando l’oscurità interpretativa pur di impegnare al massimo il destinatario nell’attività di decodifica: questi testi saranno probabilmente molto più piacevoli dei precedenti per i lettori, anche se magari ci si capisce poco. Tra questi due obiettivi estremi si colloca una gamma infinita di gradi intermedi tra l’esplicitezza e l’implicitezza, con le relative gradazioni inversamente proporzionali di asettica noiosità e di coinvolgente fascino per il destinatario. In ultima analisi chi formula un testo si muove tra il rischio di perdere il proprio lettore pur di fornirgli le informazioni volute e quello di non far passare le informazioni volute pur di tenere avvinto il proprio lettore.

 

È evidente a chiunque a questo punto, che una comunicazione che intenda essere emotiva e coinvolgente si colloca in un punto decisamente spostato verso la marcatezza: cioè, deve essere caratterizzata da un impiego della lingua probabilisticamente meno atteso e tradizionale e linguisticamente non neutro e meno “naturale”. Ma fino a che livello di marcatezza un testo continua a produrre coinvolgimento e quando comincia ad essere un’accozzaglia di parole priva di capacità di comunicazione? E se viene meno la comunicazione, di che cosa si tratta?

 

Augusto Ancillotti 

 

 

Augusto Ancillotti (1944) è ordinario di Linguistica Generale all'Università degli Studi di Perugia.


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