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Mauro Raimondi e Marco Palazzini. Milano Films 1896-2009 
Due storici per un libro sul cinema. Intervista di Alberto Figliolia
08 Gennaio 2010
   

Un viaggio nelle viscere e nell'anima della metropoli. Un itinerario di passione negli infiniti sentieri del grande schermo e delle realtà e dei sogni da esso veicolati. Oltre cinquecento, per amor della precisione cinquecentoventidue, film e pellicole divulgate e citate, fra lungo o mediometraggi o corti. Una sorta di storia italiana attraverso il cinema a Milano, con il capoluogo lombardo a risaltare nelle sue peculiarità di laboratorio artistico, sociale ed esistenziale. Milano Films 1896-2009 (Fratelli Frilli Editori, pp. 256, euro 15,50) di Mauro Raimondi, storico di Milano e scrittore (nonché collaboratore di tellusfolio), e di Marco Palazzini, operatore culturale presso il Comune di Settimo Milanese e autore, è tutto questo e altro ancora: anche pagine enciclopediche con la scorrevolezza della narrativa.

La città raccontata dal cinema... dai primi esperimenti e prove, dal finto storpio del Castello di Italo Pacchioni, anno Domini 1896 - quell'Italo Pacchioni, geniale pioniere che proiettava i suoi film nel Baraccone delle Meraviglie in Porta Genova - sino all'ultimo film di Marina Spada; dall'Automartirio (1917) con Elettra Raggio, attrice e produttrice, ai film del trio Aldo-Giovanni-Giacomo; dai teatri di posa di Luca Comerio, in Bovisa, ai film che si svolgono nella città del terziario con le sue promesse. La Fiera e la Rinascente (nome inventato da Gabriele D'Annunzio), la Scala e Milano in guerra; Michelangelo Antonioni e Miracolo a Milano diretto da De Sica; Olmi, Visconti, turbamenti, deliqui, Totò, Milano in ufficio e il boom che disintegra; la Milano conflittuale degli anni Settanta, La classe operaia va in paradiso; Comencini e la Milano horror. Insomma, come detto, un affascinante vagabondaggio, creandosi straordinari, impensati, accostamenti e inediti link, e un percorso sotterraneo, sentimentale e critico, per il tramite della celluloide, nelle vene e nei meandri della città ambrosiana, del passato e delle nostre vite, accendendo ricordi, memorie, stupori. E, ancora, Scerbanenco, yuppismo, Celentano e Pozzetto, Diego Abatantuono (il terrunciello), il fantasmagorico Ratataplan dell'architetto Maurizio Nichetti, la fatica di vivere e Milano precaria, le sfide e sfighe della contemporaneità. La Milano multietnica. Periferie e underground. Oppure si può procedere in ordine alfabetico: da A casa di Irma di Alberto Bader a Yuppies 2 di Enrico Oldoini (non tutti i film possono essere dei capolavori), un elenco sterminato con in mezzo luccicanti stelle e luminosissime scie – alias La notte, Miracolo a Milano, Rocco e i suoi fratelli –, e ogni fotogramma atto a scatenare curiosità e alimentare divertimento e/o conoscenza.


Come mai due storici come voi hanno scritto un libro sul cinema?

«Abbiamo unito tre delle nostre passioni: il cinema, Milano e la storia (per quanto riguarda Palazzini, quella dell’arte). Il nostro non è solo un libro sul cinema. Prendiamo, per esempio, la Grande Guerra (1940-45) a Milano. Ci viene coerentemente mostrata dalla cinematografia la maggiore caratteristica del conflitto: il terrore seguito all’occupazione nazista e la Resistenza. E la Milano spettrale di quel periodo fu effettivamente quella che si può vedere nelle scenografie di Sanguepazzo di Giordana, in Uomini e no di Valentino Orsini o in Mussolini ultimo atto di Lizzani. L’immigrazione o comunque il rapporto Nord-Sud, invece, è stato interpretato diversamente secondo il taglio che il regista ha voluto dare: la città di Napoletani a Milano di De Filippo, ovviamente, non è quella di Rocco e i suoi fratelli. Ma al di là delle folgoranti battute (il Duomo scambiato con una Scala in stile etrusco, il vigile definito generale austriaco, il “Parla italiano, complimenti!”), anche la scena di Totò e Peppino in piazza Duomo sintetizza alla perfezione lo scontro linguistico e culturale in atto in quel momento. Sul boom, come dimenticare la lettura critica de La vita agra (con Tognazzi) o quella più sottile ma altrettanto efficace di Olmi ne Il posto? Pure la città delle fabbriche, del terrorismo (Maledetti vi amerò, Colpire al cuore) o del riflusso con la “Milano da bere” non sono sfuggiti ad una riproduzione cinematografica. Soltanto due avvenimenti davvero importanti nella storia milanese sono stati trascurati dal cinema: la strage di piazza Fontana (anche se Sbatti il mostro in prima pagina ne riproduce i meccanismi mediatici) e Tangentopoli (Il portaborse ne evoca l’atmosfera ma è girato soprattutto a Mantova). Forse, però, non è un caso…».

Ci sono delle modalità tipiche nel mostrare Milano?

«Innanzi tutto esiste in buona parte della filmografia la tendenza a rappresentare, fin dagli anni '50, una città d’inverno: Cronaca di un amore di Antonioni, Miracolo a Milano, Napoletani a Milano, Il Posto, Una storia milanese, Rocco e i suoi fratelli… Ed è interessante notare come il freddo, anche quando non ci sia, venga esplicitamente evocato, come nella scena di Totò, Peppino e la malafemmina, allorché i fratelli Capone arrivano in Stazione Centrale vestiti come dovessero andare al Polo perché “a Milano non può fare caldo”. Questa caratteristica meteorologica, in seguito, è stata ripresa da molti altri registi, con l’intenzione legare il clima atmosferico a quello dei rapporti umani che intercorrono tra i protagonisti del film o per mostrare una città disumana a causa dei ritmi lavorativi o del traffico incessante. Proprio per questa sua modernità (già teorizzata da Raffaele De Berti nei suoi studi), Milano è stata scelta come palcoscenico per esemplificare una sorta di simbolo negativo, basti pensare al Marco Ferreri de L’uomo dei cinque palloni o alla Cavani de I cannibali. Un’altra modalità, nel mostrare Milano, è poi quella di utilizzare sia il centro (scenario tipico della commedia più tradizionale, magari con il Duomo o il Castello di sfondo) sia la periferia, presente già negli anni ‘50 in Cronaca di un amore o in Miracolo a Milano. Una parte della città, quella delle aree suburbane, che viene a rappresentare sia difficoltà personali (il vagare di Lidia-Jeanne Moreau ne La notte di Antonioni) sia sociali (Rocco e i suoi fratelli, Milano nera), e che poi si trasforma nella location ideale per il filone della criminalità (Milano rovente, Milano odia e così via) e della Milano “delle fabbriche” (La classe popolare va in paradiso, Romanzo Popolare, Delitto d’amore). Giungendo infine con il suo significato di disagio fino a noi, con Fame chimica, Whisky di via Nikolajevka e i molti corti o documentari dei tanti film-maker milanesi».

Voi definite la Milano odierna come la città dove si sopravvive…

«Erano ormai più di dieci anni che nessuno scriveva un libro sul cinema a Milano, e l’analisi teorica era ferma alla “Milano dell’inquietudine” di Soldini e a quella “della fuga” di Salvatores. Interpretazioni validissime anche oggi, alle quali, però, vedendo i (pochi) film a distribuzione nazionale su Milano ma soprattutto i tantissimi corti e documentari degli ultimi anni, abbiamo notato si debba affiancare la visione di una Milano dove si è costretti a vivere perché non c’è alternativa. Perché si è anziani, e allora ci si adatta a fatica ad un mondo che non si capisce più, in cui i rapporti umani sono ridotti al minimo. O per il lavoro, che tra l’altro è drasticamente cambiato: da valore “simbolo” della città per la sua dignità a oggetto di perenne ricatto. Non per niente, il nuovo “filone” sul precariato (assieme a quello dell’immigrazione) è uno dei più rilevanti, basti pensare a Volevo solo dormirle addosso di Cappuccio, a Il Vangelo secondo precario di Obino o a Fuga dal call center di Federico Rizzo. In ogni caso, secondo noi quello che manca a Milano è l’identificazione dei milanesi con la loro città: è come se Milano, dopo la chiusura delle fabbriche, la fine del mondo operaio e della sua morale, non sia ancora riuscita a darsi un’altra identità. E chissà se ci riuscirà mai».

Curagi e Gorio, nella loro prefazione, parlano di “democrazia tassonomica” riguardo al vostro libro...

«E hanno ragione. Nel libro, ovviamente, noi parliamo diffusamente dei film milanesi dei grandi maestri. Senza tuttavia dimenticare filmamkers o registi anche poco conosciuti; senza di questi il libro sarebbe risultato monco, anche perché Milano è tra le capitali di questo cinema “alternativo”, molto vitale ma con grandi problemi di distribuzione. Queste opere, infatti, vivono spesso solo la breve vita di un festival o di una presentazione, e trovarli non è stato facile. Ci ha aiutato, a riguardo, Filmmaker, che ha messo a disposizione il suo archivio. Oltre al nostro amore per il cinema: negli ultimi due-tre anni non ci siamo persi nessuna rassegna, anche minore, dove comparivano opere su Milano».

Secondo voi, quali sono gli ultimi lungometraggi da non perdere su Milano?

«Ritengo che A casa nostra di Francesca Comencini sia stato quello che meglio ha trattato della crisi morale di Milano in cui ogni cosa sembra asservita al denaro. La fotografia fredda di Luca Bigazzi, vero erede di altri maestri nell’inquadrare Milano come Rotunno e Caimi, aiuta molto a delineare la freddezza della metropoli odierna. Tra poco, poi, usciranno i lungometraggi di due altri maestri la cui immagine è strettamente legata a Milano: Salvatores e Soldini, dopo un lungo esilio, sono infatti tornati a girare in città e siamo davvero impazienti di verificare il ritratto che ne daranno».


Alberto Figliolia


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