| 'Neve per l'orto di Corazzini' - Foto E. Brizio, Fotoalbum |
03 Gennaio 2010
"Sonetto della neve", appartenente a Le aureole, appare costruito su opposizioni che lungo i versi si redimono dissolvendosi, implicandosi e incorporandosi: l’orto è “triste” e “nudo”, il cielo è “morto”, la neve è “bianchissima e leggera”. Dapprima “maternamente” consolatoria, a conclusione del testo la neve diviene oppressiva alla maniera del baudelairiano “vessillo nero”. L’alba è insidiosa, ma con “gesto lieve”, “sorrisa venne di sua luce chiara”, ma al contempo implacabile nel disvelare l’abbandono dell’orto - in cui è allusa l’esistenza - nella sua condizione reclusoria, esemplificato in ossimoro nel verso conclusivo, sepolto nella “tetra dolcezza della neve”. Nondimeno, in Corazzini si verifica un indebolimento dello spleen baudelairiano in termini di estenuazione, di incremento della tonalità elegiaca rispetto alla baudelairiana dimensione dell’angoscia.
La coerenza elegiaca, nell’estensione ininterrotta nel tempo di un languore mortale, si situa sulla incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirico-sensoriale, ridotte alla stregua di evocazioni - seppure evocazioni esatte nella loro precisione nomenclatoria, cui tuttavia è sotteso uno sforzo descrittivo incerto e tendenzialmente trasfigurante. Sono quasi del tutto assenti nel Corazzini più “maturo” qualsiasi idea di concretezza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua, e qualsivoglia variazione emotiva dalla monocorde intonazione elegiaca e rinunciataria, dalla salmodiante inflessione stilistica. Tali referti d’immateriale sono resi nell’inevidenza delle immagini e attraverso risonanze che non raccontano il tempo, in un ritmo (qui legato ancora alle regole della versificazione tradizionale) lento e senza dissonanze né interferenze discordanti, in un continuum dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato e inespressivo, un bianco opaco atonale risaltare del silenzio, tale da suggellare anche in questi versi il trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore, delle ore e del tempo:
Nulla più triste di quell'orto era,
nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l'anima sua bianchissima e leggera.
Maternamente coronò la sera
l'offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.
Ma poi che l'alba insidiò co' 'l lieve
gesto la notte e, per l'usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,
parve celato come in una bara
l'orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.
Nel sonetto la desolazione del “cielo morto” - altra variazione analogica dello spleen crepuscolare - si disfa con il cadere della neve, del cielo anima “bianchissima e leggera”, nell’orto cupo e desolato. La leggerezza della neve, nella sua cadenza ipnotica, consola l’anima quasi fosse un fiorire di primavere. Ma l’alba disvela la qualità illusoria del riferimento alla rinascita contenuto nel verso precedente, e l’orto staziona nel degrado del suo imprigionamento usato, con la variante della “tetra dolcezza della neve”. La metafora della primavera, qui inusualmente - e comunque labilmente - assunta a immagine consolatoria, ricorre diffusamente nella poesia di Corazzini, fino a costituire uno dei suoi più “crudeli” correlati oggettivi: essa è privazione della vita e insufficiente rifiorire dell’anima in Spleen, ennesima oggettivazione del motivo della morte estetizzata in bare fiorite in Il cimitero, simbolo dell’irrevocabilità del tempo in Toblack e in Il fanciullo, della disillusione in Ballata a morte, dell’obsolescente nostalgia nella probabilissima ipallage “Oh! primavere / di giardini lontani!” (Dopo, testo che segna il corazziniano commiato dalle forme chiuse, e dalla vita, stando alle due ultime strofe, che delineano una quasi gozzaniana veglia “crisalidea” tra il non essere più e il non essere ancora), tanto per darne un’esemplificazione estremamente parziale. Diversamente, in Per organo di Barberia la primavera è eminente emblema della poesia stessa, vale a dire una oblazione altrettanto vana (“Primavera di foglie / in una via diserta!”) come il suono dell’organetto, che inascoltato si disperde senza speranza di ricezione, cadendo nella sazia indifferenza del fondamentalmente edonistico contesto dannunziano. E la parola “vanità” (“vanità di un’offerta / che nessuno raccoglie!”) potrebbe anche rinviare alla poesia come privilegio solitario non a tutti accordato, ovvero a una condanna altrove non sperimentata. Prossimità di privilegio e di condanna, di elevazione e di perdizione: un motivo già leopardiano nel Passero solitario, e baudelairiano in L’albatros.
In Corazzini, fin dalle sue primissime prove in lingua, prevalgono un sentimento di consunzione e l’immagine di un temperamento esausto che conducono all’abolizione della differenza tra arte e vita per una simbiosi poetico-esistenziale; in tal senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria esistenza come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando altri crepuscolari adottavano la morte, la percezione dell’inconsistenza, nonché la tendenza a un’antifrastica autosvalutazione, come metafore scritturali di una quasi snobistica distanza nei confronti della cultura ufficiale. Ma tanto in Gozzano che in Corazzini l’uscita dalla storia e la trascrizione letteraria della vita, la loro stessa enfasi dimissionaria, si riveleranno sterili e ingannevoli quanto il loro originale.
Consumato “il sogno di Sperelli”, alla poesia non attiene che amare l’agonia sillabando la vita, ma per via negationis.
Elisabetta Brizio
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