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Salvatore Di Giacomo: Notte della Befana. Racconti per l'Epifania 1
01 Gennaio 2010
 

Il letto di Chiarinella l'avevano collocato in un angolo ove arrivava tutto il sole. Nel verno, quando il sole era dolce, la poverina s'addormentava in un'onda luminosa, che le scaldava le manine esangui sulla coverta. Tutta la giornata rimaneva sola; la chiudevano in casa e portavano via la chiave, abbandonandola a tutti quei pensieri, a tutte quelle paure che hanno i bambini quando non si vedono accosto nessuno. Lei dapprima avea pianto, con la testa sotto alle lenzuola, tutta raggrandita, non osando gridare per non spaven­tarsi peggio. Provava timori strani, le pareva che non dovesse stendere le gambe perché qualcuno, un mago, un essere spaventoso, le avrebbe afferrato i piedini, tirandola: non metteva fuori la testa, per la paura di non trovarsi di faccia un volto mostruoso con gli occhi spalancati che la guardavano di sopra alla spalliera del lettuccio. A momenti credeva di sentir battere alla porta quello scemo orribile, a cui venivan le convulsioni nella strada e che una volta le era corso appresso, urlando. Poi, quando la malattia la ridusse che non poteva più muoversi, rimase lì nel suo cantuccio, istupidita e indifferente, come se niente più la colpisse.

Lassù, in quella stanzuccia al quarto piano, ci dormivano la Malia, ch'era ballerina a una baracca, donna Bettina e Chiarinella. La Malia andava al concerto per tempo e toccava alla madre accompagnarla; la ragazza tornava di notte, tutta freddolosa nello scialletto rosso, con le mani nel manicotto spelacchiato, che lei stessa avea cavato dalla pelle di un gatto bianco e nero. Donna Bettina le portava nell'involtuccio la vestina di veli, il corpetto rosso a frangia dorata e le scarpine piccole come quelle di Cenerentola. Malia, quando qualcuno dei giovanotti che frequentavano la baracca le avea regalato dei pasticcetti nell'in­termezzo, entrando in casa si buttava sul letto assai stanca, senza nemmanco spogliarsi. Quando no, andava rovistando per la casa se trovasse qualche cosa da rosicchiare e strepitava, dicendo che se ne sarebbe andata via un bel giorno col primo venuto, perché quella era una vita infame e non poteva durare. Donna Bettina diceva:-Vattene, vattene, che è meglio; una bocca di meno!

Nella notte, mentre la lampada ardeva innanzi a una Madonna sul canterano, donna Bettina chiamava sottovoce:-Chiarinella!

La bambina non avea chiuso occhio. Rispondeva sommessamente:-Eh?

Dimani mamma ti compra un soldo di latte, Ti farò compagnia. Non ci vado al teatro...

Si! sì! - pregava lei. - Non ci andare, fammi compagnia!... Senti, mamma...

Quella balbettava, lasciandosi vincere dal sonno:-Zitta ora. dormi... domani... domani...

La camera taceva. Chiarinella era sempre l'uliima ad addormen­tarsi; udiva per un pezzo ancora il respiro forte e uguale della sorella, che alla baracca avea ripetuta una piroetta e s'era affaticata. A volle la coglieva la sete; scendeva, a tentoni, cercando il bicchiere sulla scansia a cui le sue piccole braccia magre appena arrivavano. Certe mattine la veniva a vedere la Nunziata, una vicina che le avea dato latte quando Bettina non ne aveva.

-Povera piccina! - mormorava. - Povera Chiarinella mia!

Le portava un'arancia fresca, sedeva accosto al letto e si metteva a toglierne la buccia e la pellicola, dividendola a spicchi che la bambina succhiava avidamente, in silenzio.

-Par nata muta -diceva Bettina, quando ne parlavano.

-No, no, è la malattia. Badatele, sapete, non si scherza; s'è fatta magra come uno spillo. Che v'ha detto il medico?

-Quale medico? E chi ha potuto chiamare il medico? Ah! Nunziata mia, voi non sapete i guai miei!

E si metteva a raccontarglieli sotto alla porta, mentre la Nunziata a ogni momento correva dentro a vigilare il ragù, di cui l'odore piccante entrava nella camera di Bettina. Guai grossi. Il marito se n'era andato a Palermo, sopra un legno di Florio, e chissà quando tornava. Denari niente. A Natale soltanto avea mandato trenta lire, sparite via come il fumo. Malia se ne avea prese otto per una cinturella dorata che le serviva nell'Orfeo all'inferno, al terzo quadro. La casa sì sfasciava, abbandonata alla miseria, senza sistema, senz'a­more. Non c'era più niente; Malia avea saccheggiato tutto: il Monte di Pietà era pieno dei panni loro.

 

-Oh! Cesù! - diceva Nunziata, rabbrividendo. — E come potete vivere così? Mettetevi a fare la

 serva, i posti ci sono.

-E Malia? La lascio sola? E Chiarinella?

-Per la bambina, se la Provvidenza ve la fa guarire, me la tengo dentro da me con le figlie mie - disse Nunziata. - Intanto Malia potete lasciarla fare. Lei non è stupida, baderà.

-Oh! no, mai sola! - protestava Bettina. - Voi sapete il mondo com'è cattivo!

Ma in fondo era per questo, che alle cenette dopo il teatro ci andava anche lei, e a volte avea messo in saccoccia qualche mezzo pollo, mentre la figlia teneva a bada i giovanotti che le facevano la corte per gli occhi belli che aveva.

Tira, tira, la corda si spezza. Negli ultimi giorni dell'anno Chiari­nella non la si riconosceva più. Si lamentava tutta la notte, piangendo sola, con la testa abbandonata che aveva fatto il fosso nel cuscino. Nel giorno della Epifania, Nunziata entrò a vederla e le spuntarono le lacrime agli occhi. Lei, poverina, le sorrise e le mostrò, senza parlare, un'altra arancia che le aveva portato la vicina e che aveva nascosta sotto alla coperta, sul petto.

-Senti, - disse Nunziata - ti vengo a far compagnia. Io ti voglio bene. Sai oggi che festa è? Oggi è l'Epifania. Stanotte arriva la Befana che va da tutti i buoni piccini. Bisogna attaccare una calza a capo del letto. Se la bambina è buona la Befana viene a mettervi un regalo bello; se è cattiva vi mette i carboni... Senti, - soggiunse - ora me ne vado, ti mando Cristinella.

Dopo un po' la figlia di Nunziata, una bambina di cinque anni, entrò allegramente. Si recava in braccio una bambola di legno, alla quale avea messo il suo grembiale ed una cuffìetta ricamata.

-Guarda com'è bella! - esclamò, sedendo sul lettuccio. - Dalle un bacio.

Glie l'accostò alla bocca. Chiarinella la baciò in punta di labbra.

-Si chiama Angelica - disse Cristinella. – E’ figlia a me.

La strinse nelle braccia e si mise a cullarla, cantandole la ninna nanna.

-Oooh! oooh!

Poi subitamente l'adagiò sulla coltre del letto.

-Tu che hai? Sei malata?

-Sì.

-E’ cosa da niente, cosa da niente! - sentenziò, come aveva udito dire qualche volta alla mamma.

- Una buona sudata e passa.

Come l'altra non diceva nulla, Cristinella si seccò. Spalancò la bocca rosea in uno sbadiglio e si allungò sul lettuccio, nel sole.

-Sai guardare il sole?

-No.

-Io sì, guarda.

E si mise a fissarlo. Ma gli occhi le si empirono di lagrime. Allora, dopo averseli rasciugati, riprese la bambola e scese dal lettuccio.

-Io me ne vado, - disse - debbo preparare il letto a questa piccola! Uh! - esclamava, baciando la pupattola. - Quanto sei bella! Vieni con mamma tua!

Chiarinella rimase sola. Dopo un momento scese, rovistò in un angolo, trovò quello che cercava. E trascinandosi sino al letto con uno sforzo che dopo la fece piangere, attaccò al bastone della spalliera una piccola calza bucherellata.

La Bettina in tutta la giornata tornò a casa due volte e poi riescì per accompagnare Malia che faceva Venere, in Orfeo.

A notte la piccina, che sonnecchiava, udì una voce maschile su per le scale e la voce di Malia.

Diceva Malia:

-Addio... ciao... Grazie!...

 

La notte della Befana era fredda, ma chiara e stellata. Un grande silenzio s'era fatto nella viuzza solitaria, un grande silenzio si fece nella stanzuccia quando Bettina e Malia chiusero al sonno gli occhi stanchi! Una delle rosee calze della ballerina pendeva accapo al suo letto. Ella stessa vi aveva lasciato cader dentro, sorridendo, un piccolo anello d'oro, un paio di profumate giarrettiere di seta.

 

Era stata Befana a se stessa, prevedendo che la Befana avrebbe lasciata vuota la calza. Nelle case de' poveri quella non entra.

Chiarinella dormiva, sognando la pupattola della sua piccola amica.

Alla dimane Malia si svegliò un poco più per tempo del solito. In tutta la notte l'anellino e le giarrettiere le aveano parlato all'orecchio. S'accostò alla finestra e si mise ad ammirare i regalucci, stropic­ciando una cocca del grembiale sull'anello lucente.

- Bello, bello! - faceva donna Bettina, di su le nude spalle della figliuola.

Chiarinella stese la mano, staccò la piccola calza dalla spalliera del letto e vi guardò entro. Il suo cuoricino batteva forte. Ma nella calza non c'era niente.

Malia si lavava, canticchiando, le belle spalle bianche, nude, assalite dai brividi. Il bacile di latta si empiva di spuma candida, fiocchi di neve ne cadevano intorno. Ancora il sole non era arrivato alla stanzuccia, ma per le vetrate appariva il cielo azzurro, limpidissimo, sul quale la Befana aveva, nella notte, ripassata la sua scopa di penne di pavone.

La piccola calza bucherellata era caduta sulla coverta del lettuccio, e da presso due piccole mani vi si abbandonavano, esangui. Tra tanta infantile minutezza le cose più grandi eran due lacrime, che scende­vano per le gote di Chiarinella.

 

                                                    Salvatore Di Giacomo

 

 

 

 

La notte della Befana è uno di quei racconti in cui si resta “arravugliati”, come avrebbe detto Di Giacomo, ossia aggrovigliati in un miscuglio di sentimenti. Di Giacomo, lavorando con le parole, crea una miniatura di bellezza e di commozione dove il volto di Chiarinella, in attesa della Befana, diventa indelebile nella  mente del lettore. Scrive Francesco Grisi  “Napoli per Salvatore Di Giacomo è il regno della fantasia, dove le danze degli uomini si incrociano con le favole e le magie. Tutto è concretamente reale, ma tutto avviene nel verosimile”.

                                                 °°°

    

Salvatore Di Giacomo nasce a Napoli il 12 Marzo 1860.  Abbandona dopo pochi esami gli studi di medicina, scoprendo la propria vocazione poetica e letteraria. Ben presto comincia a collaborare con riviste e giornali, pubblicando articoli e novelle. Nel 1893 diviene bibliotecario, ricoprendo negli anni seguenti tale funzione in varie biblioteche e istituzioni culturali di Napoli. Nel 1929 è nominato Accademico d’Italia.

Autore di novelle, poesie e testi di canzoni, Di Giacomo rappresenta una delle più intense voci poetiche di Napoli e dell’Italia di fine Ottocento e senza dubbio una delle più alte espressioni raggiunte dalla lingua napoletana.

Le novelle, nate quasi sempre da interventi pubblicati dallo scrittore sui giornali di Napoli, venivano poi  ampliate, rielaborate e infine raccolte in un libro. Alcune di esse diventavano drammi teatrali come avvenne per la famosa Assunta Spina.

Negli undici libri di novelle, rivive con immediatezza la Napoli tra Otto e Novecento.

Alcune delle  poesie di Salvatore Di Giacomo, musicate da compositori dell’epoca, sono oggi capolavori indiscussi della canzone napoletana come Marechiaro, Era de maggio, Carulì, Palomma 'e notte.

Muore a Napoli, il 5 Aprile 1934.

 

                                         A cura di Anna Lanzetta


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