Leggere, studiare, andare a teatro e nei musei … Mmmh, il problema secondo me è un altro.
– E quale, secondo te non è giusto promuovere l’arte, la cultura?
– Sì, certo. Ma con quale buona ragione potresti convincermi ad andare a teatro, mettiamo?
– Non so, a me andare a teatro piace, mi fa stare bene e intanto imparo delle cose…
– Sei sicuro che le cose che fanno stare bene te, quelle che tu impari andando a vedere l'ultimo spettacolo in cartellone, abbiano un qualche valore generale, che possano far star bene anche me?
– Boh, no, non ho detto questo … Però sono cultura.
– Ecco, vediamo allora cosa è, questa cultura.
– Io credo che la cultura sia qualche cosa che non è solo mia, che è un po' di tutti.
– Sì, sono abbastanza d'accordo. Nel senso che si distingue dalla biografia proprio perché è un insieme di conoscenze condivise, scambiate.
– E per te questo scambio di conoscenze non è un valore?
– Assolutamente sì. Ma io trovo che il valore sia nello scambio, nel gesto. Non più nelle conoscenze, che sono diventate inservibili.
– Inservibili, la cultura è inservibile?!
– Ho esagerato, lo ammetto. Era un paradosso. Ma perché qualcosa comunemente serva, è necessario che possieda anche un obiettivo comune. Un'utilità, per così dire.
– E tu non trovi che la cultura sia utile?
– No, ma non è nemmeno inutile. È questo il guaio.
– Parliamone…
– L’utilità è un concetto che riguarda le azioni, i gesti, cioè gli effetti tangibili dentro il mondo. E in che modo io faccio esperienza del mondo?
– Beh, con la vista, lo sguardo…
– Sì, certo. E poi con il tatto, il gusto, l’odorato, l’udito… Insomma con i sensi, che sono il tramite tra mondo e corpo.
– Mi stai dicendo che una cosa è utile se il corpo ne ha vantaggio?
– In un certo senso. O meglio se tramite il corpo io sperimento un vantaggio.
– Che secondo te non ha però nessun valore generale...
– Non l’ha più, l’ha avuta e ora non ce l’ha più. Adesso è solamente il corpo individuale che può orientarsi, stare a galla tra le cose. Quello sociale è come se avesse atrofizzato i collegamenti nervosi.
– Corpo sociale, corpo individuale…
– Ti faccio un esempio: il mal di denti, hai presente il mal di denti?
– Il mal di denti, sì.
– I denti hanno lo smalto, la dentina; più sotto le gengive, la polpa e quindi i nervi, che portano al cervello.
– Non me ne parlare, domani mattina devo andare dal dentista.
– E perché domani vai dal dentista, posso chiedertelo?
– Perché mi fanno male i denti, è chiaro.
– Sì, è chiaro. Ma perché altre volte ti alzi per andare ad un museo, in una libreria… Cos’è che ti fa male?
– Prosegui, mi intriga.
– Io penso che le società, un tempo, funzionavano come il mal di denti: tutto era collegato. Così quando a uno faceva male un premolare - non prendermi in parola - tutti quanti si legavano uno straccio di lana attorno alle mascelle.
– Beh, anche adesso se c’è un disagio economico, mettiamo, una crisi finanziaria, vengono erogati fondi, si mettono in moto i politici e le banche centrali. E’ anche questo una specie di mal di denti collettivo.
– Mi sembra un po’ ottimistica la tua visione, però in un certo senso convengo. Ma quando fanno male i capelli?
– I capelli?!!
– I capelli, sì. È una brutta battuta di Monica Vitti in un brutto film di Antonioni.
– Credo di capire dove vuoi arrivare. Un dolore che non sai bene da dove venga: diffuso, tenace, indefinito.
– Quando una comunità sperimentava questo dolore, indistinto quanto reale, la trama dei suoi nervi mandava il segnale al cervello, che attivava subito qualcosa come un sistema immunitario collettivo.
– E da cosa era formato ciò che tu chiami un sistema immunitario collettivo?
– Dall'arte, la cultura. Con gli artisti che facevano la parte dei globuli rossi.
– ...!
– ...
– Mi stai dicendo che l’arte era una specie di pronto soccorso?
– Sì, o se preferisci un farmaco, un sistema organizzato di gesti che serviva, in quell'epoca nemmeno troppo lontana, a tutto ciò per cui niente può servire.
– Accidenti, sei su di metafora oggi! E l'arte, la cultura, vuoi dire che da sole si smazzavano tutto questo bel lavoro?
– Non da sole, le aiutava la teologia. In un certo senso la teologia era il mandante, lo sfondo.
– I fermenti lattici intestinali?
– Bella immagine, lo vedi che inizi a seguirmi.
– Già, in effetti la teologia funziona molto bene per le gengive, specie l'Inquisizione…
– Dai, non scherzare: guarda che ti ricordo il rumore del trapano, domattina non devi vedere qualcuno…
– Il dentista, no, per carità!
– Eppure quando una persona esce dallo studio del dentista è come più leggera, facci caso: l’espressione è simile a quella di uno che esca da uno spettacolo, dopo aver assistito a un capolavoro.
– È vero, hai ragione, non ci avevo mai pensato!
– Ma perché allora un sacco di gente esce con una faccia un po’ così, frastornata, dopo aver visitato una mostra di arte contemporanea?
– Forse perché l’artista non è riuscito a centrare il dente giusto, ha trapanato a vuoto.
– Sì, bravo, forse. O forse perché l’arte contemporanea ha perduto il suo ruolo di farmaco, non corrisponde più a un impulso nervoso della comunità.
– Ti seguo e non ti seguo…
– ...
– Mi viene in mente la famosa poesia di Baudelaire su quell'uccello, come si chiama...
– Albatros.
– L'albatros, già. Ma a questo punto chi ha ragione: l’artista-albatros o il bonario qualunquismo di Alberto Sordi, sai quel film in cui la moglie viene scambiata per un’istallazione alla Biennale, e finisce tutto con una gigantesca spaghettata?
– Io penso che abbiano ragione entrambi, ma anche torto.
– Ragione, torto?
– Questa società è immedicabile dall’arte, si sono interrotte le terminazioni nervose che la legavano ai suoi artisti, i mal di denti ora sono personali. Ci sono diverse ragioni per cui è successo, ma è successo.
– E come posso dire, allora, se e un opera d’arte è bella oppure brutta? A quale categoria generale posso agganciare il mio giudizio: se non più ai denti, ai capelli, a cosa…?
– Beh, ad esempio l’arte, ora, adesso, può servire a ricordarti che hai dei denti, che possiedi dei capelli…
– Fermo fermo fermo!
– Intendo dire che l’arte non può più curare nessuna ferita, ma può ricordarti che la tua ferita è un po’ più estesa del tuo corpo, che oltre il tuo corpo ce ne sta un altro più grande. Solo che il tessuto nervoso è addormentato e non lo puoi sentire.
– Dici che fanno la coda per questo, le coppiette domenica pomeriggio di fronte all'ennesima mostra sugli impressionisti: per risvegliare una superfetazione del corpo, l’emergere dei denti del giudizio?
– Temo di no, ho paura che questo sia perlopiù turismo culturale, una rilassante scampagnata artistica.
– Me lo spieghi?
– Io la vedo così. A molti l’arte serve semplicemente per svagarsi, non per entrare dentro l'officina del corpo, se così posso dire. Si attraversano i corridoi di un museo come planando sopra a un campo di margherite.
– Un aliante a motore spento.
– Un aliante, sì.
– E si sorvola per dimenticarsi di avere un corpo, è questo che vuoi dire?
– Già, l'arte, al suo peggio, ha questo effetto: scorpora, alleggerisce dal peso delle cose; o almeno dà questa illusione.
– Ma è proprio il contrario di quello che dovrebbe fare la “grande arte”: collegare, connettere, far percepire.
– E collegando nella consapevolezza, trasformare. È da lì che veniva il medicamento: dalla trasformazione.
– Trasformare dentro questo corpo più ampio, più esteso, se ho capito bene. Trasformare come nell'alchimia.
– L'alchimia, bravissimo!
– Allora il turismo culturale è davvero fuori strada: invece di dargli una bella sveglia, è come se tagliasse le terminazioni nervose. Liberasse il palloncino.
– Esatto, credo anch'io che sia così. Ma dimenticare non significa rendere libero, piuttosto non sentire.
– Come si fa a dimenticarsi di avere un corpo?
– Basta continuare a sorvolare il mondo senza più dolore né cura, alla maniera di una mappa.
– Ma l'arte diventa così un semplice ornamento da esibire con un bel sorriso, una lucida chiostra di denti che non morda né faccia male.
– Sì, un sorriso, un dentifricio, qualcosa come, come...
– Ho capito, come una dentiera!
Guido Hauser