Tredicesimo giorno dello sciopero della fame di Marco Pannella, nell’ambito delle iniziative relative al Grande Satyagraha Mondiale. Sabato sera gli ascoltatori della trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa” hanno avuto la possibilità di conoscere in parte le ragioni di questa iniziativa; è evidente che si tratta di una goccia nel grande deserto della disinformazione e della mancanza di conoscenza, ma questo evidentemente non deve scoraggiarci, ma costituire ulteriore motivo e ragione per quello che si cerca di fare.
Va comunque sottolineato come questo digiuno sia ormai giunto alla conclusione della seconda settimana senza che nessun giornale, radio o televisione si sia semplicemente chiesto il perché di questa iniziativa, perché Pannella stia facendo quello che fa. Un silenzio, una indifferenza, una censura che certamente sono un problema dei radicali, ma non solo dei radicali.
Ed è significativo – negativamente significativo – che non si sia colta l’importanza, la straordinarietà dell’“evento” costituito dal quarto congresso di Nessuno Tocchi Caino: è la prima volta che un congresso – non solo di un’associazione radicale, ma in assoluto – ha come teatro dei suoi lavori un penitenziario. Il titolo del congresso, quanto mai attuale: “Basta omicidi, basta suicidi, basta segreti di Stato”.
In sostanza, si richiama l’attenzione non solo sulla pena di morte nel mondo, ma sulle decine e quasi quotidiane morti che ogni anno in Italia si verificano tra i detenuti. Morti molte volte sospette, oscure; e anche quando si tratta di suicidi non si possono slegare dalla condizione di pena e di sofferenza in cui versano le nostre carceri, i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria. Proprio ieri l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere (una sorta di comitato animato da Radicali italiani, dall’Associazione “Il detenuto ignoto”, dall’Associazione Antigone, dall’Associazione A Buon Diritto, dalla redazione di “Radio Carcere” e dalla redazione di “Ristretti Orizzonti”) ha dato notizia di un nuovo suicidio in carcere. A togliersi la vita Marco Toriello, 45 anni, tossicodipendente, gravemente ammalato. Si è impiccato nella sua cella del carcere di Salerno. Si tratta del sessantanovesimo recluso che si toglie la vita dall’inizio dell’anno. Viene così eguagliato il triste “record” del 2001: il numero più alto di detenuti suicidi nella storia della Repubblica. Il totale dei detenuti morti nel 2009 sale così a 171.
Anche nel caso di Toriello, come in altri casi recenti, i famigliari non dubitano della versione ufficiale e vogliono che la magistratura intervenga, disponendo un’indagine. E se è vero che ogni nuova morte in carcere si presta ad alimentare sospetti e polemiche (e i parenti hanno il sacrosanto diritto di chiedere e ottenere una verità certa), l’attenzione alla singola vicenda non deve far dimenticare che le “morti di carcere” rappresentano sempre e comunque una sconfitta per la società civile. Negli ultimi 10 anni nelle carceri italiane sono morte 1.560 persone, di queste 558 si sono suicidate. Per la maggior parte si trattava di persone giovani, spesso con problemi di salute fisica e psichica, spesso tossicodipendenti.
Al di là del caso specifico di Toriello, la domanda da porre è se sia davvero inevitabile, una sorta di maledizione, che i detenuti muoiano con questa agghiacciante frequenza di 1 ogni 2 giorni. La risposta è: no, non è inevitabile. I morti sarebbero molti meno se nel carcere non fossero rinchiuse decine di migliaia di persone che, ben lontane dall’essere “criminali professionali”, provengono piuttosto da realtà di emarginazione sociale, da storie decennali di tossicodipendenza, spesso affette da malattie mentali e fisiche gravi, spesso poverissime.
Oggi il carcere ci sono una quantità di queste persone, e il numero elevatissimo di morti ne è conseguenza diretta: negli anni ’60 i suicidi in carcere erano tre volte meno frequenti di oggi, i tentativi di suicidio addirittura 15 volte meno frequenti… e non certamente perché allora i detenuti vivessero meglio.
Oggi il 30 per cento dei detenuti è tossicodipendente, il 10 per cento ha una malattia mentale, il 5 per cento è sieropositivo hiv, il 60 per cento una qualche forma di epatite, in carcere ci sono paraplegici e mutilati; a Parma c’è una sezione detentiva per “minorati fisici”… e si potrebbe continuare. Le misure alternative alla detenzione sono concesse con il contagocce: prima dell’indulto del 2006 c’erano 60.000 detenuti e 50.000 condannati in misura alternativa; oggi ci sono 66.000 detenuti e soltanto 12.000 persone in misura alternativa. Più della metà dei detenuti è in attesa di giudizio, mentre 30.500 stanno scontando una condanna; di questi quasi 10.000 hanno un residuo pena inferiore a 1 anno e altri 10.000 compreso tra 1 e 3 anni.
Molti di loro potrebbero essere affidati ai Servizi Sociali, anziché stare in cella: ne gioverebbero le sovraffollate galere e, forse, anche la conta dei “morti di carcere” registrerebbe una pausa. Questa la situazione, questi i fatti. Se ne dovrà continuare a parlare.
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 21 dicembre 2009)